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[Long form] Montalcino: l’eno-paradosso più galattico che ci sia

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Un automobilista sta ascoltando la radio, quando la trasmissione viene interrotta per una comunicazione urgente: “Attenzione attenzione, c’è un pazzo che sta guidando contromano in autostrada!”. E lui, mentre scansa una macchina dopo l’altra: “Uno solo? Saranno duecento!”

È più vecchia dell’epidemia di fillossera, eppure mi fa sempre ridere. Probabilmente c’entra il tipico processo di identificazione proiettiva: tutti ci siamo sentiti quell’automobilista almeno una volta nella vita e a me capita ogni volta che si parla di Brunello, limitando il coming out all’ambito vinoso. In questo caso dovrei dire CI capita, dato che il long form scaturisce in buona parte dalle riflessioni condivise con gli amici del Tipicamente Wine Club nel corso delle due serate dedicate alla corposa Orizzontale Montalcino 2010.

Se siete interessati alle annotazioni strettamente enoiche, potete interrompere qui la lettura e rifarvi eventualmente alla consueta “Pillola” che funge da verbale sintetico dei nostri ritrovi [1]. Se invece avete tempo (e voglia) per un approfondimento a più ampio spettro sul distretto di successo più paradossale che ci sia: mettetevi comodi e buon proseguimento.


Everybody loves Brunello

Sappiamo benissimo di rappresentare la minoranza della minoranza della minoranza, non serve che ce lo ricordiate. Tutti amano il Brunello e la fan base si allarga costantemente, come indicano peraltro i primi entusiastici report sui 2019, l’ultima vendemmia rilasciata da disciplinare. E lo amiamo anche noi, ci mancherebbe altro, ché solo uno stupido negherebbe il ruolo e il valore del vino simbolo di Montalcino. Un po’ come quell’automobilista contromano in autostrada, però, ci guardiamo attorno e restiamo disorientati, sperimentando sensazioni divergenti nel nostro percorso bevitorio. Non riusciamo sempre ad entrare in piena sintonia con lo stile dominante nel panorama contemporaneo della denominazione e non ci pare vero di incrociare compagni di tavola disposti a parlarne, tipo gruppo di sostegno degli Alcolisti Anonimi.

Forzando ma non troppo, è come se i tratti distintivi che hanno contribuito e contribuiscono a rendere il Brunello una vera e propria superstar globale, fossero gli stessi che allontanano talora la minuscola nicchia di cui facciamo parte. Larghezza, maturità, struttura, intensità, calore: il Sangiovese di Montalcino onora regolarmente la sua trasversale reputazione di rosso “importante”, riconosciuta come tale a primo impatto anche dal neofita, senza bisogno di chissà quali corsi di alfabetizzazione sensoriale. Per gli aromi complessi, il corpo potente, la ricchezza alcolica, innanzitutto, insieme alle altre caratteristiche che lo differenziano a occhio nudo dalle bottiglie più semplici e quotidiane.

Un’identità espressiva fortissima, almeno quanto quella veicolata da un brand territoriale universalmente familiare, impossibile da confondere o dimenticare. Tra le 20 parole italiane più utilizzate al mondo secondo la Società Dante Alighieri (le prime cinque sono pizza, cappuccino, spaghetti, espresso e tiramisù), “Brunello” chiama in causa una tipologia affascinante, ma anche impegnativa. Non solo per i prezzi: un vino che richiede una serie di attenzioni ed accorgimenti a cui non è sempre disposto chi è affetto dalla “sindrome del bevitore stanco”, come la definisce con formidabile efficacia Antonio. A maggior ragione in una fase come questa, nella quale i mutamenti climatici, agronomici e interpretativi che si susseguono sembrano irrobustire la tempra materica e “sudista” del Sangiovese montalcinese, smorzandone i contrappesi più tesi e slanciati.
I punti di forza possono facilmente trasformarsi in limiti, quando scatta il too much, ed è uno degli elementi su cui ci interroghiamo.


Brunello vs Brunello: surfando tra due millenni

Il più mediterraneo dei rossi continentali e insieme il più continentale dei rossi mediterranei: la magia dei più grandi Brunello della storia si condensa tutta in questa speciale fusione, che nessun altro comprensorio italiano è stato in grado di proporre a livelli così elevati. Penso in particolar modo alle migliori riuscite degli anni ’80 e dei primi anni ’90, l’epoca d’oro del vino toscano, almeno per chi come noi ha in mente quella idea di eleganza, classicità e prospettiva. Se paragonati ai più nobili Supertuscan di Chianti Classico e Montepulciano, i fuoriclasse di Montalcino apparivano davvero come una sorta di quadratura del cerchio: i più “solari” dei “freddi”, capaci di tenere insieme in maniera impareggiabile dolcezza e austerità, sapore e rigore, polpa e nerbo.

Come già sottolineato, lo scenario si è poi gradualmente modificato e il terzo millennio ha illuminato un volto del Sangiovese grosso assai più internazionale, perfino nuovomondista in certi frangenti. Naturalmente non è accaduto soltanto a Montalcino: un tema affrontato tante volte, anche nei nostri podcast [2], per cui non ci ripetiamo. Il punto è che, se una certa era stilistica appare archiviata per sempre in diversi distretti storici, a prescindere dalla volontà dei produttori, per il Brunello si tratta di una transizione che rischia di pesare maggiormente, alla luce del suo più importante architrave identitario.

Al di là dei dettagli organolettici, infatti, non c’è dubbio che la notorietà planetaria del Brunello sia in larga parte legata anche alla sua fama di “grande vino da invecchiamento”. Nel sentire comune è sicuramente “il” rosso italiano per antonomasia, insieme al Barolo, con cui sfidare i Bordeaux, i Rodano e i Rioja più iconici sul terreno della longevità. Una reputazione costruita prima di tutto grazie alle numerose annate del Novecento trovate in perfetta forma dopo affinamenti ultradecennali, celebrate da case d’aste e collezionisti (partendo ovviamente dalle mitiche Riserve di Biondi Santi). Senza trascurare il ruolo fondamentale di un disciplinare che pone l’accento proprio sull’elemento temporale: non c’è nessun’altra denominazione italiana che preveda per la tipologia “base” una commercializzazione dopo oltre 4 anni (5 per la Riserva), due dei quali in legno.

Lo stesso disciplinare su cui, tuttavia, dibattono sempre più spesso anche le aziende del territorio, senza una vera “soluzione”. Da una parte non si può dare torto a chi sostiene che sarebbe una follia toccarlo, considerando il valore fondante di cui parlavamo poc’anzi. Dall’altra è innegabile che gli oltre quattro anni d’invecchiamento minimo, di cui due in legno, avessero una precisa funzione quando lo zoccolo duro della denominazione era disegnato da Sangiovese a dir poco ruvidi e spigolosi, mentre è legittimo chiedersi se si adatti del tutto alle odierne condizioni climatiche, viticole ed enologiche.


Il Brunello è ancora un vino da invecchiamento?

Per la mia esperienza e sensibilità, i Brunello del Duemila – salvo eccezioni – sono vini che arrivano sul mercato già estremamente pronti, in diversi casi troppo. Come sappiamo, ciò non significa che siano per forza destinati a un consumo nel breve termine e che non possano veleggiare ancora qualche lustro su quella matura compiutezza. Aumenta tuttavia la frequenza di annate in cui il gruppone appare affollato di vini che oltrepassano quella soglia: cotti più che terziari, sfibrati più che placidi, zavorrati e statici, più che estivi e tirrenici.

Una tendenza che sembra coinvolgere molto meno il Rosso di Montalcino, sempre più apprezzato da una certa fascia di pubblico negli ultimi anni, e non soltanto per i costi più accessibili. Ed è probabilmente uno dei motivi per cui il disciplinare del Brunello si ritrova suo malgrado tra gli indiziati in questo filone d’indagine: Gran Reserva spagnole e poche altre denominazioni a parte, porta con sé il protocollo di maturazione nettamente più orizzontale e “ossidativo” tra quelli adottati dai grandi rossi europei.

In altre parole: il principe dei rossi toscani può essere ancora considerato un vino da invecchiamento, nella sua accezione più rigorosa? Ovvero, una tipologia che non solo può, ma in qualche modo DEVE affinare a lungo in bottiglia prima di raggiungere l’apice dell’armonia e della complessità? A giudicare dallo stato evolutivo evidenziato da gran parte dei Brunello già a 10-15 anni dalla vendemmia, la risposta magari non è un no secco, ma nemmeno un sì convinto, per quanto ci riguarda.


Il trionfo delle contraddizioni e degli anacronismi

I protocolli “croce e delizia” sono soltanto una delle innumerevoli manifestazioni di quell’inestricabile groviglio di apparenti contraddizioni e anacronismi che rendono Montalcino un vero e proprio unicum nel panorama vitienologico europeo.

È quantomeno singolare, ad esempio, che la fama del Brunello sia strettamente connessa all’idea del grande vino da invecchiamento, nonostante il suo successo mondiale arrivi grazie a vini decisamente più pronti ed approcciabili nel breve e medio periodo, oltre che dal potenziale evolutivo meno definito, rispetto a quelli che ne hanno scandito l’epica pionieristica. Vale la pena di ribadirlo: è un processo che interessa quasi tutte le zone più prestigiose del Vecchio Mondo, ma la finestra ottimale di beva per i migliori vini di Montalcino si sta anticipando più di quanto accada da altre parti (pezzi di New World compresi).

Così come colpisce che il suo ingresso definitivo nella Champions League del Vino Europeo coincida con una fase storica sulla carta tutt’altro che favorevole per questo modello di rosso. Lo ricordavamo in apertura: con le sue crescenti opulenze gliceriche, il Brunello non è certo il prototipo del vin de soif e più in generale del “vino anni ‘10”, tutto giocato su freschezza aromatica, sviluppo verticale, leggiadria e souplesse di beva. Resta invece il rosso da regalare e stappare nelle occasioni memorabili, ed è evidente che non avrebbe alcun senso deviare da questi binari stilistici, se siamo d’accordo sul fatto che sono elemento fondante della sua trionfale riconoscibilità.

A guardar bene, insomma, si tratta di antinomie che hanno a che fare con proiezioni sfocate di certe tribù di bevitori, nelle quali ci includiamo pienamente, più che con oggettive problematiche produttive. È come se a volte ci aspettassimo qualcosa che il Brunello forse non è mai stato e sicuramente non può essere oggi: una spigliatezza “contemporanea” che non è giusto chiedere a un vino “ottocentesco” e che, come detto, appartiene maggiormente al Rosso, per fisiologiche ragioni.

Se è vero che il Brunello non è mai stata la bottiglia da sgargarozzare in solitudine lontano dai pasti, sarebbe comunque un errore non tenere conto di alcune indicazioni che arrivano anche dai più ferrei estimatori del comprensorio montalcinese. I quali lamentano soprattutto la crescente difficoltà nell’individuare tradizioni culinarie e spazi gastronomici pienamente funzionali ad esaltare la ricca rosa dei Brunello, non appena ci si allontana dalle colline toscane. Brutalizzando: le cucine fine dining non sembrano amiche dei grandi rossi italiani, come testimoniano tanti bravi sommelier e responsabili di sala.

C’entrano sicuramente anche i costi e la legislazione sulla sicurezza stradale, così come non c’è dubbio che sui mercati più floridi e consolidati (Stati Uniti in testa) quello della “versatilità gastronomica” sia un tema molto meno sentito. Resta però il fatto che, anche nelle famigerate bicchierate casalinghe condivise, difficilmente spunta fuori un bel Brunello quando si è in meno di 5-6 e non c’è la ciccia a portata di mano. Un vero peccato, perché – come con i migliori rossi da Aglianico – mi è capitato tantissime volte di godere totalmente a tavola, con calma, vini che in assaggio tecnico mi avevano lasciato molto più tiepido.


E poi arrivò l’annata 2010

Non è un caso che il bisogno di condividere delle riflessioni a più ampio raggio sia nato dopo la sostanziosa orizzontale 2010. Una prova di gruppo molto positiva, tra le migliori degli ultimi anni a tema Montalcino, con pochissimi vini non all’altezza del loro blasone, ottime conferme su una vendemmia giustamente celebrata, almeno da quelle parti, e un livello medio piuttosto omogeneo calibrato verso l’alto. Eppure, attorno a me poche facce entusiaste e una generale fatica a mettere a fuoco le principali differenze territoriali e stilistiche, diversamente da quanto succede di solito. Sopra ogni cosa, credo che i compagni di tavola si attendessero qualcosa di più dalle “punte”, quelle realmente capaci di staccarsi dal gruppo dei buoni in termini di finezza e profondità: aspettative legittime, se si ambisce a giocare nel campionato mondiale dei “mostri”.

Al di là degli aspetti tecnici e valutativi, una retrospettiva sui 2010 ci aiuta anche a ricostruire alcuni passaggi cruciali per le vicende del territorio. In primis ricordando la fase storica in cui il millesimo esce sul mercato: siamo nel 2015, a sessant’anni esatti di distanza da quella che viene da tanti considerata la vendemmia totemica della denominazione, celebrata anche da Wine Spectator con l’inserimento del Brunello Riserva 1955 di Biondi Santi [3] tra i dieci vini più importanti del XX secolo. Un’annata che richiama al contempo uno dei periodi più difficili in assoluto per la comunità di Montalcino, ben oltre le questioni produttive, tra ricostruzione post-bellica, spopolamento delle campagne e i profondi mutamenti dovuti alla fine della mezzadria.

Crediti foto: web (vi preghiamo di segnalarci i crediti specifici, in modo da inserirli in didascalia)


Anno spartiacque sotto tantissimi punti di vista, il 2015 rappresenta per molti versi il suo alter ego simbolico. L’uscita dei 2010 segna l’ingresso definitivo del Brunello negli Avengers del vino mondiale: non accade dalla sera alla mattina, ma l’attribuzione dei 100/100 di Wine Advocate a ben tre Brunello 2010, prima volta di sempre per Montalcino, si configura senza dubbio come uno dei momenti chiave. Si tratta infatti del massimo riconoscimento della newsletter fondata da Robert Parker (curata in Italia da Monica Larner), che nel comparto enoico globalizzato del Terzo Millennio diventa un rating simile a un indice di borsa [4]. Se lo aggiudicano in prima battuta il Tenuta Nuova di Casanova di Neri e il Madonna delle Grazie de Il Marroneto, a cui si affianca successivamente il Bassolino di Sopra di Pian dell’Orino (e in seguito, coi 2016, Gianni Brunelli e di nuovo Madonna delle Grazie). Sono tutte aziende nate dopo il 1970, stando alla documentazione del Museo del Brunello.

E sempre a proposito di momenti chiave: più o meno negli stessi mesi la Holding francese EPI Group acquisisce Biondi Santi. Non è certo la prima compravendita che vede coinvolti grandi investitori provenienti da fuori Montalcino, basti pensare – in ordine sparso – a Casisano (Tommasi Family Estates), Castello Romitorio (Sandro Chia), Castiglion del Bosco (Gruppo Ferragamo e poi Rosewood), Le Macioche (famiglia Cotarella), Mastrojanni e Podere Le Ripi (Illy), Poggio Antico (Atlas Invest), Poggio di Sotto (Gruppo Tipa), Argiano (André Santos Esteves), Podere Brizio – Poggio Landi (Alejandro Bulgheroni Family Vineyards), San Polo (Allegrini), Val di Suga (Bertani Domains), e l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo. Il trasferimento in mani straniere della cantina dove tradizione vuole che sia stato “inventato” il Brunello (non è esattamente così, ma non è l’occasione giusta per parlarne), si carica tuttavia di un significato profondamente diverso: la sensazione che quel giorno si compia qualcosa di epocale è potentissima.


Archiviare Brunellopoli

Complice la particolare congiuntura economica seguita alla grande crisi finanziaria del 2008, l’annata 2010 segna un prima e un dopo per i bevitori di classe media. È la fase in cui i grandi vini europei fanno registrare violente impennate di prezzi, sia sui listini di partenza sia nei successivi passaggi speculativi delle varie filiere commerciali. Prima Borgogna e Bordeaux, poi Rodano e Barolo; infine Montalcino, dove l’escalation assume un valore ancora più profondo, alla luce di quanto accaduto solo pochi anni prima.

La 2010 non è semplicemente la vendemmia del definitivo “salto di specie” sul piano comunicativo e mediatico, ma anche e soprattutto quella che permette al distretto di lasciarsi alle spalle il cosiddetto “scandalo Brunellopoli” [5]. Sintetizzando al massimo, parliamo dell’indagine condotta dalla Guardia di Finanza tra il 2007 e il 2008 su una serie di cantine montalcinesi, accusate di aver tagliato il proprio Brunello con altre varietà non consentite dal disciplinare (in particolare merlot, cabernet, petit verdot e syrah). Al termine dell’istruttoria vengono denunciate alla Procura di Siena 17 persone e 7 aziende, mentre più di 1,3 milioni di litri di Brunello di Montalcino sono declassati a IGT.

Un caso certamente controverso, ma che riguarda solo una minuscola parte della compagine produttiva di Montalcino. Eppure finisce a lungo sotto i riflettori, fondamentalmente per due macro ragioni. Da una parte perché viene portato all’attenzione nazionale dal settimanale L’Espresso, che nei giorni di Vinitaly 2008 pubblica un’inchiesta battezzata “VelenItaly”, all’interno della quale è contenuto l’articolo sulla vicenda (che in realtà ha a poco a che fare con il tema principale di copertina). Dall’altra la faccenda sembra togliere il velo a qualcosa che in tanti ipotizzano, lasciano intendere, sussurrano a mezza bocca, senza che ciò comporti un vero ripensamento sistemico. Anzi, scorrendo le liste dei vini che vanno per la maggiore in quella fase, e riassaggiandoli oggi, appare chiarissimo come fosse ben accetto da critici e operatori qualche Brunello più “colorato” e “internazionale”. Salvo eccezioni, as usual.

Sulle prime, il combinato disposto dell’indagine della magistratura e del polverone giornalistico ha un impatto estremamente negativo su Montalcino e sui suoi vini. Col senno di poi, potremmo perfino azzardarci a sostenere che ha avuto un ruolo salvifico: da lì in poi barra dritta sul Sangiovese, due Assemblee dei soci del Consorzio nodali che bocciano qualunque proposta di modifica dei disciplinari (28/10/2008 e 8/11/2011) e l’ardua ma inesorabile risalita verso quell’Olimpo in cui il Brunello splende come stella di prima grandezza.

Crediti foto: web (vi preghiamo di segnalarci i crediti specifici, in modo da inserirli in didascalia)


Gerarchie mobili

Riuscite ad immaginare la Borgogna che si ritrova improvvisamente senza i domaine de la Romanée Conti, di Madame Leroy e di Armand Rousseau? Oppure Bordeaux senza i cinque Château Première Cru Classé? O magari le Langhe di Barolo senza Giacomo Conterno, Bruno Giacosa e i Mascarello, Gaja, Roagna o chi vi pare? Perché a Montalcino è accaduto qualcosa di non troppo distante, iperboli a parte, se pensiamo alle trasformazioni societarie e tecniche che hanno riguardato alcune delle realtà più iconiche, partendo da Biondi Santi, Soldera e Poggio di Sotto.

L’ennesimo apparente paradosso: il boom intercontinentale del Brunello e del suo territorio si materializza proprio quando vengono a mancare o cambiare i leader assoluti, i punti di riferimento per lungo tempo indiscussi, artefici dei vini più quotati e ricercati da super appassionati e collezionisti. Portando così alla ribalta come non mai un distretto plurale, dove un ampio gruppo di aziende lotta per il vertice della piramide, dividendosi i favori di pubblico e stampa, senza che ci siano davvero nomi capaci di mettere tutti d’accordo. Come non accade da nessun’altra parte, l’hit parade di Montalcino appare profilata da una cinquantina di etichette, una rosa da cui le varie testate pescano per indicare i loro Brunello preferiti, non di rado cambiando completamente scelte da un anno all’altro.

Si tratta di un fenomeno interpretabile in maniera diametralmente opposta, in base all’angolo di osservazione. A prima vista diremmo che è una gran bella notizia, perché significa che la denominazione, il comprensorio, il brand Montalcino sono più forti dei singoli e di ogni specificità “micro”. D’altro canto, questa carenza di punti fermi può anche essere inquadrata come indicatrice di confusione, sia nella prospettiva critica che nella lettura di sotto-aree, stili, annate. L’esempio più efficace ci arriva proprio dai tre vini premiati con i 100 Punti Parker: assegnarli a produttori così stilisticamente distanti come Alessandro Mori (Il Marroneto), Giacomo Neri e famiglia (Casanova di Neri), Caroline Probitzer e Jan Erbach (Pian dell’Orino) è come esplicitare l’idea che non ci sia UN modello espressivo di riferimento nell’universo Brunello, ma che possa in qualche modo rientrarci tutto. Nel bene e nel male.

A volte sembra quasi che ogni panel di assaggio abbia in testa un proprio prototipo di Brunello, che con sempre minore frequenza si àncora a quelli di altri gruppi. Anche questa è una tendenza più generale, ma la polarizzazione dei giudizi che si manifesta a Montalcino colpisce doppiamente, considerando quell’omogenea taratura verso l’alto da cui ci siamo mossi.


Mappare Montalcino?

Magari mi sbaglio, ma sono convinto che le gerarchie mobili del Brunello siano legate a doppio filo anche al vero nodo irrisolto dei suoi anni da superstar. È da quando mi occupo più o meno professionalmente di vino, ormai un bel po’ di vendemmie fa, che sento ragionare dell’opportunità di una “zonazione” (termine a dir poco fuorviante) all’interno della denominazione. Sta di fatto che, ad oggi, Montalcino resta uno dei pochissimi territori idealmente affiliati al Club dei Galacticos a non essersi ancora dotato di una mappatura di secondo livello: per capirci, quella che in Francia prende la forma dei cru – classificati o meno – e in Italia si è concretizzata attraverso le Menzioni Geografiche Aggiuntive di Barolo e Barbaresco, le UGA del Soave e del Chianti Classico, le future Pievi del Vino Nobile di Montepulciano e le Nomeranze di Dolceacqua, e così via.

Il Consorzio del Vino Brunello di Montalcino ha avviato da tempo uno studio di fattibilità ed è abbastanza comprensibile che ci sia una vera accelerazione solo adesso. Finché il comprensorio era composto da poche realtà e lottava prima di tutto per la sopravvivenza (mi riferisco agli anni ’50-’70), non aveva alcun senso discutere di macroaree e sottozone. Oggi che è pienamente integrato nell’élite europea, è inevitabile una riflessione sulla “prossima cosa”, a maggior ragione guardando a come sono strutturati i competitor più volte citati, cominciando da quelli transalpini. È come vincere lo scudetto e poi passare a giocare la Champions: devi rafforzarti ulteriormente, se le tue ambizioni non sono quelle di figurare da semplice comprimario.

Anche in questo caso, comunque, non ci sono ricette oggettivamente “giuste” o “sbagliate”. Io stesso mi sono trovato a cambiare idea più volte sulla questione e ritengo ci siano argomentazioni validissime per fare un nuovo passo in questa direzione, ma anche per decidere di lasciare tutto com’è. Provo a riassumerle sinteticamente di seguito.

Mappare Montalcino: perché sì

Perché l’area di produzione del Brunello e del Rosso di Montalcino copre un territorio molto ampio (24.000 ettari), dove la vigna è ormai coltivata quasi dappertutto.

Perché a Montalcino convivono aree che dal punto di vista ambientale e climatico sono praticamente Maremma, accanto a zone di alta collina di profilo più “chiantigiano”, se mi passate la forzatura.

Perché nel corso del tempo la superficie coltivata a vigneto è passata da poche decine di ettari (64 nel 1967, quando entra in vigore la DOC) agli attuali 2100 (e circa 3500 in totale, contando anche Rosso di Montalcino, Sant’Antimo e IGT) [6].

Perché aumentano considerevolmente ad ogni vendemmia i vini che riportano in etichetta menzioni di contrade, toponimi, vigne, particelle.

Perché tra i vini più lontani, geograficamente e stilisticamente, possono palesarsi differenze espressive macroscopiche.


Mappare Montalcino: perché no

Perché il Brunello è anche una denominazione dal fortissimo animo “blend”. Sono numerosi i vini che nascono da assemblaggi territoriali, sia per fattori patrimoniali (poche proprietà storiche a corpo unico, ulteriore segmentazione nel periodo post-mezzadrile) che produttivi (soprattutto a partire dagli anni ’90, nel momento in cui la filiera si specializza definitivamente, viene considerato un valore aggiunto poter contare su vigne strategicamente posizionate in zone diverse per bilanciare l’effetto annata, a maggior ragione al cospetto di una varietà capricciosa come il Sangiovese).

Perché un disciplinare che prevede una maturazione così prolungata concorre ad un profilo di vino per il quale diventa più difficile la lettura delle sfumature espressive che differenziano macroaree, zone, cru, in rapporto a quanto accade con tipologie che si originano da affinamenti obbligatori più brevi, maggiormente impostati su tratti giovanili.

Perché il brand Brunello di Montalcino è più forte di qualunque nome di zona, contrada, podere, single vineyard, marchio aziendale, eccetera, ed è sensato che rimanga la sola menzione ufficiale.

Mappare Montalcino: perché ni

Perché una mappatura “territoriale” si può fare sempre, comunque e dovunque, a prescindere dal suo utilizzo su un’etichetta, partendo da dati che permettano di distinguere, descrivere ed eventualmente raggruppare unità geografiche secondo criteri di omogeneità (storica, ambientale, culturale, comunitaria: non c’è un’unica strada percorribile).

Perché una mappatura “espressiva” è a dir poco scivolosa se non regge alla prova dei fatti, se non si indagano e verificano in profondità le differenze territoriali che si palesano nei vini al netto delle variabili viticole, vendemmiali o stilistiche, in maniera costante e ripetibile nel tempo.

Perché a Montalcino sembrano maturi i tempi per il primo step, sollecitato su vari fronti, ma ci sono poche chance di adottare una mappatura geografica che non copra tutte le zone in maniera orizzontale e paritaria, sia per ragioni economiche e patrimoniali, sia per ragioni agronomiche e produttive.

Perché, bottiglie alla mano, si oscilla facilmente tra impressioni opposte. Da una parte sembra piuttosto agevole ricondurre determinati caratteri alle rispettive macroaree di provenienza e ci sono sicuramente zone circoscritte che marcano i vini in maniera riconoscibile (penso alla collina di Montosoli, ma anche a I Canalicchi, Tavernelle-Santa Restituta, Sesta, Piancornello, citando solo i primi che mi vengono in mente). Dall’altra le carte si rimescolano in continuazione, dato che capita altrettanto frequentemente di riscontrare importanti similitudini tra vini che nascono in luoghi completamente diversi dal punto di vista geo-pedoclimatico, così come possono registrarsi enormi differenze tra vini che prendono forma in aree assai ravvicinate.

Perché, tirando le somme, un lavoro di questo tipo ha senso solo condividendo in pieno intenzioni e prospettive, anche alla luce di quanto accaduto in altri territori.


E domani?

Se c’è una cosa che credo di aver imparato in venti e passa anni di bevute, è quanto il vino sia imprevedibile: vino inteso nella sua accezione più ampia, con tutte le ramificazioni ambientali, umane, sensoriali possibili e immaginabili. Il che rende gli esercizi divinatori alla Nostradamus ancora più inutili, velleitari e grotteschi del solito, figuriamoci poi quando abbiamo a che fare col regno del Brunello, che è cintura nera di impronosticabilità.

Come traspare in maniera evidente da alcuni dei passaggi richiamati in questo lungo focus, quello che risalta maggiormente, quando si approfondisce nel dettaglio l’epopea di Montalcino, è la sua attitudine nel superare i momenti difficili. Anzi, più le situazioni si fanno complicate e più questa comunità sembra trarre l’energia per rinascere dalle proprie ceneri e risalire la china.
I numeri non mentono: nel Secondo dopoguerra Montalcino è uno dei paesi più poveri d’Italia, con oltre il 10% della popolazione residente che tra il 1951 e il 1970 vive di sussidi e riceve assistenza medico-farmaceutica a carico del Comune [7]. Nel giro di trent’anni – dal 1951 al 1981 – la popolazione di fatto si dimezza, passando dagli oltre 10.000 abitanti a poco più di 5.000 [8-9]: tempi durissimi, come racconta anche Enzo Tiezzi in questa bella intervista rilasciata a Winesurf che vi consigliamo di recuperare [10].

Eppure nel volgere di poco cambia tutto, o quasi. L’acquisizione di Poggio alle Mura (poi ribattezzato Castello Banfi) da parte della famiglia americana Mariani nel 1977 consolida la “campagna acquisti” sul territorio inaugurata nel 1973 dai Marone Cinzano a Col d’Orcia e che prosegue senza sosta nei decenni a seguire. Nel 1978 le bottiglie rivendicate a Brunello e Vino Rosso dai vigneti di Brunello superano per la prima volta il milione di pezzi e a metà degli anni ’80 Montalcino è già il settimo comune della provincia di Siena per reddito pro-capite (fonte: Rapporto Monte dei Paschi di Siena sull’economia provinciale). Il resto della storia la conosciamo.

Mai scommettere contro Montalcino, verrebbe insomma da concludere, rinfrescando la lezione. Ed è il motivo per cui, quando oggi ci chiediamo come e dove saranno questo territorio e il suo vino più importante tra dieci-venti-trenta-cento anni: d’istinto rispondiamo che saranno sempre lì a combattere ai piani alti, proprio grazie a questa incredibile capacità di assorbire gli urti. Tutti uniti attorno a Mister Brunello, consacrato per sempre come entità più grande di un nome collettivo dalla forza spaventosa.


In conclusione

E però le domande restano, non solo per le questioni “tecniche” che abbiamo provato fin qui ad esaminare. Sulla carta, ragionando in via del tutto teorica, il comprensorio montalcinese non sarebbe propriamente favorito dai cambiamenti agronomici e climatici in corso. È altrettanto vero, però, che in questa fase i terroir “mediterranei” sembrano paradossalmente (di nuovo) rispondere meglio di quelli “continentali” agli andamenti meteorici più caldi, siccitosi e schizofrenici delle ultime stagioni. Si fa tuttavia fatica a scorgere un approccio mirante ad individuare strade e contromisure comuni, e più in generale ad intercettare un pensiero rivolto più al futuro, che a questo glorioso presente.

È forse il piano che suscita i maggiori dubbi. E se la comunità del Brunello fosse straordinaria a reagire agli ostacoli più insidiosi, ma meno allenata a gestire onori e trionfi? A giudicare ad esempio dalla rapidità e talvolta dalla miopia con cui vengono bollate come “indesiderate” voci anche solo minimamente dissonanti: l’interrogativo appare legittimo.
Anche qui non si tratta certamente di un’esclusiva montalcinese, va senza dire. Oggi ci vuole davvero pochissimo per finire in ideali “liste nere”, se ci si esprime in termini meno che entusiastici sul territorio, vino, produttore o consorzio di turno. E però da queste parti il meccanismo appare più esplicito e meno sottotraccia che altrove, come se ci sentisse in obbligo di difendere, ad ogni costo e con ogni mezzo, un bene troppo grande e forse un po’ inaspettato, almeno per la rapidità e la forza con cui è arrivato. Il che potrebbe non essere necessariamente un male: si gioca a carte scoperte. Torniamo però al punto di partenza. Anche attraverso queste scelte di promozione e comunicazione, cogliere la visione di fondo, intuire dove si immagini il comparto produttivo del Brunello da qui a qualche anno, beh, diventa sempre più complicato, almeno per noi guidatori contromano.


[1]
[Dai Social] Pillole di Wine Club #43 | Orizzontale Montalcino 2010

[2]
[Podcast] Vino al Vino 50 Anni Dopo [S1 E2] | Montalcino
[Podcast] Vino al Vino 50 Anni Dopo [S3 E4] | Vino grande Vino

[3]
Tipicamente Racconta #1 | Il Brunello di Montalcino Riserva 1955 Biondi Santi

[4]
[Tipicamente] Cento, cento, cento | Antonio Boco

[5]
Il caso Brunellopoli

[6]
Montalcino e il suo Brunello: evoluzione e affermazione | Giorgio Masellis

[7]
Istituzioni, società, economia in una comunità valdorciana. Montalcino (1361-1462) | Federica Viola

[8]
https://www.tuttitalia.it/toscana/48-montalcino/statistiche/censimenti-popolazione/

[9]
http://www.comuni-italiani.it/052/014/statistiche/popolazione.html

[10]
Enzo Tiezzi | Intervista di Carlo Macchi (Winesurf)

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