
Se siete fra i tre-quattro che seguono i nostri vaneggiamenti dagli esordi (familiari inclusi, chiaramente), sapete bene quanto siano disprezzate da queste parti le rivendicazioni da primogenitura in materia cibovinosa.
In altre parole: ne abbiamo abbastanza di faccine, sottintesi, ammiccamenti, ritrovamenti diaristici, varie ed eventuali, con cui vengono richiamate pippobaudesche scoperte, rivelazioni e sentenze, per la serie «ah, finalmente ci siete arrivati anche voi». A maggior ragione quando scattano con pavloviana-svizzera puntualità sulle tastiere di chi rimuove sistematicamente tutte le altre nove puttanate che ci siamo dovuti sorbire prima di sentirne una (forse) giusta.
Il nostro manifesto ammette un’unica deroga a questi giochini autoreferenziali: la “primogenitura affettiva”. Quella che ti lega indissolubilmente a certi luoghi e volti che hai incontrato (e magari provato a raccontare) un po’ come volando senza paracadute. Con limitate informazioni preliminari e un’idea iniziale perlopiù confusa, forse proprio per questo permeabile in ogni suo spazio dalle tracce raccolte per strada. Ecco cosa proviamo tutte le volte che qualcuno condivide il suo apprezzamento per un vino di Calce, piccolo villaggio della Catalogna Francese, che scegliemmo insieme al Consorzio della Vernaccia di San Gimignano come territorio ospite per l’annuale degustazione in sala Dante, appuntamento fisso nella settimana delle Anteprime Toscane (Ecco qui, qui, qui e ancora qui qualche report).
E’ passato un lustro e ci capita spesso di ripensare a quel viaggio, probabilmente il più “scioccante” finora nel rapporto tra aspettative ed esperienza reale. Una sorta di Paura e Delirio a Las Vegas in salsa irpinetrusca, con la provinciale D 18 che diventa la transNevada e i canyon delle vigne, strappati alla roccia e alla tramontana, alla fine non così diversi da quelli del film di Terry Gilliam, nostro personale eroe.
Un’avventura psicomagica, noi più belli di Benicio Del Toro e Johnny Depp, perché là l’insensato prendeva senso, come fare vino da alberelli secolari, curandoli letteralmente uno ad uno e venendo ripagati quando va bene con un paio di grappoli. Un posto fuori dal tempo e dallo spazio, dove si orecchia la lingua della luce prima ancora delle varianti franco-spagnole, e le più consolidate dottrine agro-enologiche aiutano a capire poco o nulla. Tipo come nascono vini di gradazione contenuta e forti accenti nordici in uno scenario così mediterraneo, col sole che picchia e la pioggia che ogni volta fa l’effetto di un pinguino al Colosseo. Trovatemene un altro, di paese del vino che è nel suo tutto indivisibile un cru, nell’accezione più filologica possibile di “circoscritto”. Un ecosistema, non una somma di parcelle e colline, conteso e sorretto dall’abbraccio circolare dei Pirenei e dalla catena delle Corbières, dal puzzle solo in apparenza ordinato di scisti, marne e calcari. Dove la biodinamica è una necessità operativa, più che una scelta filosofica o comunicativa.
Non ci eravamo finiti per caso, chiaramente: eccitati da qualche bottiglia spacciata da fuoriclasse del winescouting come Mario Galleni e Leonardo Stelloni di Teatro del Vino o Christian Bucci di Les Caves des Pyrènes Italia, ci volle un attimo per capire come mai se ne parlasse tanto in Francia. Perché quando la figaggine si accorda con la sostanza non ce n’è per nessuno, e la popolarità di questo minuscolo territorio è letteralmente esplosa negli ultimi anni, perfino tra i superappassionati del Bel Paese. Torno a bomba; è bello e confortante sentirsi parte di un innamoramento condiviso, tutto qua, e di chi scrive prima o dopo ci importa veramente poco.
Siamo più sensibili, invero, ai tarli che si annidano nel cervello (o in quel che ne rimane) quando arriva il momento della verifica. Da una parte vorresti conservare intatte le vibrazioni del primo incontro, dall’altra lo sai che il cambiamento è il motore del mondo, e il vino ne è uno dei testimoni privilegiati. Ci hai fatto ugualmente incazzare, caro Matassa Blanc. Ti avevamo lasciato come una delle interpretazioni più stratificate ed esaltanti degli scisti verticali di Calce, per molti versi la seconda-terza punta dei Pays Catalanes dopo Gauby e insieme ad Olivier Pithon. Ti ritroviamo un po’ come l’ennesimo biopicio simile a tanti altri, impegnato a dichiarare al mondo “hey baby, io sono naturale” e solo come postilla “ah già, sono anche una Grenache Grigia maritata al Maccabeu dei Pirenei Orientali”. Ci hai fatto godere con la pancia e col cervello in versione 2007-2008, evaporando dalla bottiglia dopo ogni sorso colmo di frutto intatto, sale e minerali tridimensionali. Ci hai fatto intristire con questo 2011 che solo il politicamente corretto protegge da una nota tipo “vinello acidulo, scisso e sbrigativo in chiusura”.
Purtroppo non sei il solo che abbiamo visto mutare nello stile in questi anni. E vorremmo tanto chiederti mourinhanamente porqué, porqué, porqué? pure se conosciamo già la risposta. Ti filavano in pochi quando ci facevi battere il cuore, oggi che ti sei rifatto un look più alternativo c’è la coda per averti: messa così hai ragione tu, e c’è poco da controbattere. Del resto non è colpa tua se questo pazzo pazzo settore, a dispetto di tutte le belle parole, proprio non ce la fa a liberarsi dall’esigenza di vedere occupate delle caselle riconoscibili, tra i filoni di successo che si danno il testimone. Snobbando, il più delle volte, le ambizioni di chi vuole farsi semplicemente alto artigianato, camminando su crinali non immediatamente etichettabili, ma non per questo meno rischiosi.
Provocazioni a parte, e ancor più sapendo bene che una singola versione non fa automaticamente primavera, c’è da considerare un altro aspetto. Quelli che noi percepiamo come mutamenti espressivi netti, in molti casi si rivelano legati a piccoli accorgimenti più che a grandi stravolgimenti tecnici. Nel senso: i bianchi con cui abbiamo familiarizzato nelle prime esplorazioni non erano certo vini di “confezione grammaticale”, ma già allora giocati su quel filo sottile che spesso divide anarchia e originalità. Non è detto, insomma, che Tom Lubbe (titolare della piccola cantina, ndr) abbia volontariamente modificato chissà che nel suo protocollo interpretativo, ma quel poco arriva a noi come significativo scarto “a sinistra” nell’arco parlamentare artigianale.
Mi pare una questione interessante su cui ragionare: non che avessimo bisogno di pretesti per mettere in calendario un altro volo Ryan Air Perugia-Girona, ma a questo punto non possiamo più aspettare. Prepara tramontana, canyon e batterie psichedeliche, cara Calce, stiamo arrivando per sbrogliare, ehm, l’ennesima matassa (lo so, questa è troppo anche per un post sconclusionato come il presente).
Altre foto disponibili sulla pagina facebook di Tipicamente, Album Calce 2010 – link