Verticale Hermitage di Jean-Louis Chave: cattivo è diverso (cit.)

chave tutte

Confesso di nutrire sentimenti ambivalenti verso le cosiddette verticali. Un odi et amo irrisolto, probabilmente generato dalla consapevolezza di non essere Yuri Chechi e di trovarmi assai più a mio agio, di solito, in posizione parallela al suolo.

Nodi freudiani a parte, mi pare ci siano tanti pro quanti contro nell’assaggiare lo stesso vino in più annate. Può essere indubbiamente utile per ripercorrere, bottiglie alla mano, la storia produttiva e stilistica di una cantina. Così come è spesso d’ausilio per inquadrare e comprendere meglio il carattere di certe interpretazioni alla luce di traiettorie evolutive ricorrenti. E’ pur vero, diciamolo francamente, che il rischio noia-assuefazione sale vertiginosamente quando si gira intorno alla medesima etichetta. A maggior ragione se il movente principale è quello di bere-godere, senza tanti pensieri didattico-tecnici.
Le eccezioni fortunatamente non mancano. E di volti tediati non mi è parso di incrociarne nell’ultima occasione di questo tipo, quando ci siamo ritrovati dal solito Amerigo a Savigno per onorare la splendida batteria messa insieme dal Conte Farini per esplorare il tema “Hermitage di Chave”.

Un piccolo bignami per chi non ha voglia di sciropparsi le note sui singoli vini:

– il domaine guidato oggi da Gérard e Jean-Louis non è esattamente una realtà emergente dell’ultima ora (l’anno di fondazione riportato è il 1481) e qualche sua bottiglia l’abbiamo stappata in questi anni, eppure mi aspettavo fino a un certo punto un livello così alto.
– a parte un paio di fisiologiche underperfomance, l’intera lineup ha coinvolto ed entusiasmato nel suo insieme. Non è accaduto quello che spesso trasforma le verticali un po’ in “occasioni perse”: ci si concentra sulle due-tre cose migliori e si finisce per trascurare versioni che, testate da sole, si prenderebbero il centro della scena in un singolo appuntamento alcolico. Questa volta proprio no: ogni millesimo ha saputo ritagliarsi adeguati spazi di attenzione ed apprezzamento, integrandosi alla perfezione con la cucina di Amerigo.

Gli "Hors Catégorie"
Gli “Hors Catégorie”

– il valore aggiunto di una bevuta così viene senza dubbio dalla possibilità di misurarsi con bottiglie mature, nel senso più bello del termine. Undici vendemmie pescate in un arco temporale di 17 anni (1999 la più giovane, 1982 la più vecchia), quasi tutti trovate ben al di qua del virtuale apice che inaugura la parabola discendente. Vini dunque pienamente integri, in molti casi ancora sul frutto, ma nel contempo totalmente appaganti per complessità espressiva ed armonia di beva.
– Forzando ma non troppo, in quella “finestra ideale” abbiamo incontrato soprattutto le versioni anni ’90. Non che quelle del decennio precedente mancassero di freschezza e tensione (eccezion fatta per l’82), ma alla luce anche di altre stappature mi pare che gli Hermitage giusti di vendemmie giuste diano il loro meglio intorno ai 20 anni, stagione più stagione meno. Vale a dire nella fase in cui l’esuberanza speziata e materica del syrah nord-rodanesco si assesta su binari decisamente più raffinati e setosi, senza perdere una virgola nella dimensione saporosa e carnale.

– Ha meno senso del consueto, in occasioni così, ridurre tutto a classifiche modello hit parade. Per chi proprio non vuole rinunciarci, direi che una sintesi valutativa possa funzionare con una suddivisione di questo tipo:

Gli Hors Catégorie (quelli che da soli sarebbero valsi il viaggio): 1991 e 1998
Grandi: 1985, 1989, 1999
Molto buoni: 1996, 1997, un gradino sotto 1983 e 1986
Minore: 1982 (sul viale del tramonto)
La delusione: 1995 (vedi nota specifica)
Bonus track: Hermitage 1969 – Sorrel (grazie ancora a Francesco Oddenino per averlo condiviso)
A seguire le note di assaggio sui singoli vini (dal più vecchio al più giovane)

I "grandi"
I “grandi”

Hermitage 1982
Praticamente identico a come lo ricordavo: autunnale-crepuscolare, castagnoso, in ultima analisi troppo evoluto aromaticamente e in debito di energia al palato. Tutto sommato ci sta per “un’annatina”, come è stata l’82 in Rodano.
Hermitage 1983
In fase terziaria anch’esso, più di quanto mi aspettassi: non so dire se per una bottiglia meno felice o perché calato rispetto al mio unico assaggio, che risale però ad almeno un lustro fa. Ma è un’evoluzione bella, intendiamoci: erbe secche, arbusti mediterranei, agrumi canditi. Snello ma non fragile, un po’ scoperto nell’apporto verticale, gli manca un plus di sapore ed espansione ma lo penalizza più il confronto con i migliori che la resa espressiva in sé.
Hermitage 1985
Introverso e sottrattivo, per me ipnotico nella dinamica quasi salata del sorso. Leggera buccia di pomodoro, frutti di bosco in gelatina, un tocco fané di rosa appassita: una sorta di ponte aromatico tra il Rodano e la Langa giacosiana, che si conferma nell’impianto gustativo, tanto austero quanto spontaneo, meno esplosivo di altri, ma di rivelatoria profondità.
Hermitage 1986
Il cavallo pazzo del gruppo, a dir poco anarchico fin dal primo impatto, con una continua altalena di riduzioni ed aperture, impuntature fungose e lampi balsamici. Jazz anche nella trama palatale, tutta strappi, sincopi, accelerazioni e frenate. Tra i più “gastronomici” della batteria.

I "molto buoni"
I “molto buoni”

Hermitage 1989
Non mi aveva entusiasmato nell’unico assaggio precedente (circa tre anni fa), questa volta tutt’altra storia. Estremamente “rodaniano” per il gioco di mirtilli e oliva nera, resine e spezie piccanti, erbe da cucina e sottobosco; tra i più autorevoli col suo profilo energetico, riservato, progressivo, rude e probabilmente ulteriormente capace di crescere in bottiglia. Continuo ad imputargli, si fa per dire, un tocco crudo-algido che non mi fa innamorare del tutto, ma parliamo di un grande vino senza discussioni.
Hermitage 1991
Vino semplicemente strepitoso, tridimensionale, assoluto. Pesca da tutti i registri aromatici possibili e immaginabili, gronda giovinezza e forza da ogni goccia, ha la tessitura e l’eleganza di un grandissimo Borgogna. Chiude, per modo di dire, con un’interminabile ruota di pavone tutta frutti, fiori, balsami, spezie, salsedine, essenze termali. Il vino della verticale senza se e senza ma.
Hermitage 1995
Bottiglia non fortunata, decisamente inferiore ai miei due assaggi precedenti, invero straordinari: profilo confuso, volatile in evidenza, sviluppo a strappi. Peccato, perché dai miei ricordi poteva giocarsela con ’89 e ’98 per il podio di giornata, se in forma.
Hermitage 1996
Il classico “piccolo vino” nella forma, capace di regalare enormi soddisfazioni nella sostanza. E’ un peso leggero, o perlomeno così appare nel confronto con i “fratelli” di retrospettiva, che conquista per la brillante mobilità del naso (lampone, mapo, oliva verde, noce moscata), e la souplesse vitaminica del sorso. Nervoso e scalpitante, appena crudo negli apporti linfatici, forse, ma al tempo stesso disteso e rilassato. Da trangugiare al ritorno dal lavoro, senza tanti accorgimenti di abbinamento.

I "molto buoni", ma un gradino sotto
I “molto buoni”, ma un gradino sotto

Hermitage 1997
Per molti versi l’alter ego del ’96: ha più bocca che naso, un po’ frenato inizialmente da riduzioni ematiche, prima di mettersi in moto con pregevoli nuance di melograno, mirto, elicriso. Godurioso e carnale, la trama estrattiva non è magari finissima, ma chi se ne frega: avvolge e consola, ed è oltretutto una notevolissima riuscita in rapporto all’annata non certo celebrata in zona.
Hermitage 1998
Senza dubbio il più “sessuale” del gruppo: pronti via, e c’è subito un frutto rosso straripante, continuamente arricchito da suggestioni agrumate, tocchi di cacao, con una speziatura delicatissima da Vosne. Ma non lasciatevi ingannare: la parte maschile c’è, eccome, e parla chiaramente con le bacche nere, l’incenso, la brace, e ancor di più per l’imponente volume del centro bocca, che torna ad essere carezzevole nel lunghissimo finale. Il ’91 ha classe superiore, ma questo gli è subito dietro.
Hermitage 1999
La parola chiave qui è: nitidezza. Mi scoccia dover ricorrere nuovamente all’aggettivo “borgognone”, ma l’associazione scatta quasi automatica davanti a quella spettacolare sinfonia di ribes, mentuccia, pompelmo rosa, poutpourri, pepe bianco, varie ed eventuali. Una magia aromatica che la bocca amplifica: non è certo enorme per volume, ma non c’è la minima indecisione o vuoto di sapore nello sviluppo. Teso e coerente fino alla fine, ammetto che non lo ricordavo così buono.
Sorrel 69
Bonus Track: Hermitage 1969 – Sorrel
Pienamente integro, non certo una perversione necrofila nonostante i 46 anni sul groppone. Iperbalsamico, eucalipto e canfora, erbe mediterranee a gogò, tonico ed avvolgente fino alla fine, tiene nel bicchiere con grande autorevolezza.

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