Quale futuro per le Italian Grape Ale?

Vendemmia

Nel settembre 2009 pubblicai un’intervista a Kuaska in cui in cui si parlava dello stato dell’arte del movimento brassicolo italiano, dopo gli anni dei (pochi) pionieri e con una crescita tumultuosa che sembrava alle porte.

Tra le tante cose dette, che invito gli appassionati a riascoltare, Mr. Dabove sottolinea come i birrai italiani siano favoriti, in un certo senso, dall’assenza di una tradizione codificata, fatto che gli lascia mano libera e massima espressività creativa rispetto a Paesi dove le scelte sono molto più incanalate.
Tra queste interpretazioni, Kuaska cita anche le birre che, in qualche modo, incrociano il mondo dell’uva, dei mosti e del vino. Un omaggio quasi dovuto, in un Paese dove il nettare di Bacco è così importante e presente un po’ ovunque.
Bene, la notizia degli ultimi mesi è che questa categoria di birre è stata “certificata”, in qualche modo, dal BJCP (Beer Judge Certification Program). Da oggi, insomma, le Italian Grape Ale sono ufficialmente riconosciute, anche se non considerate un vero e proprio stile.
Il perché, ovvio, risiede nella storica vocazione vitivinicola italiana ma soprattutto nel livello, qualitativo e quantitativo, raggiunto dai birrai di casa in questo tipo di performance (e più in generale nel panorama internazionale del movimento artigianale).
La domanda, insomma, nasce spontanea. Quale sarà il futuro delle Italian Grape Ale? Si affermeranno sempre più? Caratterizzeranno la produzione italiana a livello internazionale? Oppure le birre che incontrano l’uva sono destinate a rimanere un fatto marginale, ad appannaggio di qualche produttore testardo e dei soliti beer geek? Lo abbiamo chiesto a un po’ di bella gente incontrata al Villaggio della Birra

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