“I gol non si contano, si pesano”, diceva Enrico Cuccia, e lo stesso vale per gli assaggi. Quelli dell’ultimo trip in Borgogna (febbraio 2022) non erano stati tantissimi in assoluto, ma diciamo che una loro ragionevole rappresentatività – tipo sezioni campione per le proiezioni Doxa – gliela attribuivo, considerando il livello dei domaine visitati.
Lunga premessa solo per ritardare il momento in cui confesso al gruppo di sostegno che ho completamente cannato la lettura dell’annata 2020 in Côte d’Or. Mi ero fatto l’idea di una vendemmia succosa e raffinata, solare, ma non priva di slanci e contrasti, mentre gran parte dei rossi stappati nell’ultimo anno urla shbabbari: silhouette fruttate piuttosto accaldate (e non di rado surmature), concentrazioni rodanesche, prepotenze tanniche non proprio abituali sul vitigno.
E se perfino un Voillot, per quanto d’ingresso, finisce per evocare autoctoni nostrani coltivati mille chilometri più a sud, per quanto è ombroso, fitto e scalciante: si amplificano gli interrogativi su come appare già e soprattutto su come potrà cambiare la fisionomia strutturale di un Borgogna “classico”.
Capiamoci bene, non sto dicendo che sia tristo, anzi, ma “pinot nero di Borgogna” alla cieca non lo direi nemmeno leggendolo sulla cartellina di Mike Buongiorno, appoggiandomi sulle coordinate canoniche e sui riferimenti più radicati in memoria.
E mentre cerchiamo di capirci qualcosa, amici di Narni, Campi Flegrei, Manciano, Verduno, Casale Monferrato, Santa Maddalena e Dolceacqua: tenetevi pronti, non si sa mai.