
Premessa: non assaggio tutti i Sancerre, Pouilly-Fumé, Chavignol, ecc. prodotti ogni anno, tutti gli anni, per cui le mie non possono che essere impressioni parziali, condivise più di pancia che sulla scorta di solidi approfondimenti.
E però la somma di tante singole bottiglie una sceneggiatura te la costruisce comunque. E nel mio film la Loira orientale a base Sauvignon (e un po’ di Pinot Nero) emerge sempre di più come una delle zone che sta soffrendo maggiormente i cambiamenti climatici.
Una traiettoria che paradossalmente, ma solo in apparenza, sembra spesso riguardare i terroir continentali perfino più di quelli mediterranei. A maggior ragione quando ci sono di mezzo varietà che giocano tutto su dettagli aromatici ed equilibri sottilissimi, proprio per questo non replicabili a quei livelli fuori dalle aree di elezione (e non ditemi che sono l’unico a beccare con crescente frequenza Borgogna – anche di lignaggio – neri come la pece, che alla cieca diresti Rodano).
E mi dispiace un sacco, specie se a smarrire magia e mordente sono vini del cuore, come è stato a lungo per me lo Chavignol di Cotat. Lo ritrovo ad ogni assaggio trasfigurato e depauperato, come peraltro accade anche col Monts Damnés dello stesso produttore, i Clos de la Néore post 2013 di Vatan e diversi Dagueneau. Per carità, ci sono problemi ben più seri, però mannaggiatutto lo stesso.
Big bubble, Philadelphia, maraschino, stretto, amarognolo e bruciante: 2018, che peccato.