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Pillole di Wine Club #38 | Orizzontale Taurasi 2008

Taurasi 2008 - foto apertura

«Se non ci convincono nemmeno stavolta, domani mattina andiamo ad espiantare tutto l’aglianico d’Irpinia».

È da questa specie di patto vietcong che ci siamo mossi per aggredire la consueta retrospettiva annuale a tema Taurasi, incentrata sulla vendemmia 2008. Iperboli pulp a parte, aleggiava davvero la sensazione di “ultima chiamata” per definire il rapporto di molti di noi con il rosso irpino. Perché l’annata era ed è di quelle importanti, una delle pochissime degli ultimi 25 anni salutate con favore fin dall’inizio da produttori, critici, addetti ai lavori. E già questo rende immediatamente l’idea dell’anomalia Taurasi, che sembra rimasto l’ultimo posto al mondo in cui le cosiddette annate a 5 stelle sono 2-3 su 10, se va bene, come accadeva anche in Toscana e Piemonte fino ai primi anni 2000 e ora non più, a quanto pare.


Taurasi 2008 | L’annata climatica e agronomica

Battezzata da un inverno sostanzialmente mite e moderatamente piovoso, la 2008 è trasversalmente ricordata soprattutto per la primavera fredda ed estremamente piovosa. Fino alla metà di giugno dominava praticamente dappertutto pessimismo cosmico, con una caterva di vignaioli dall’umore nerissimo che condividevano presagi tra il nefasto e il catastrofico. Poi il ribaltamento improvviso, tipo colpo di scena da film: nella notte del 22 giugno si passa dall’autunno più umido e brumoso ad una vera e propria estate semi-caraibica, che di fatto salva la campagna vendemmiale e la profila nei distretti rossisti più prestigiosi d’Europa come la “classica annata classica”, sia per livello medio (tra il discreto e l’ottimo) sia per carattere (con lo zoccolo duro rappresentato da vini tendenzialmente longilinei e verticali).

Ma per l’aglianico di Taurasi la 2008 non è soltanto una buona annata: almeno da un punto di vista climatico e agronomico, si tratta come detto di una delle migliori in assoluto del nuovo millennio. E i motivi sono facilmente intuibili dalla sua fisiologia di varietà tardiva: le piogge di maggio e giugno hanno un impatto molto diverso su un vitigno che matura a settembre, rispetto a un altro che si raccoglie nella seconda metà di ottobre o addirittura a novembre.

Lo stesso vale per le variabili meteoriche in un’area tutt’altro che sudista per orografia e clima. In questo senso l’estate irpina del 2008 si è rivelata a dir poco favorevole sotto ogni punto di vista:

  • molto calda ma senza i picchi torridi e afosi di molti millesimi successivi;
  • asciutta ma con piogge arrivate nei momenti giusti (a inizio agosto e inizio settembre) per prevenire fenomeni estremi di stress idrico;
  • escursioni termiche a dir poco rilevanti (oltre 16 gradi di differenziale medio tra massime diurne e minime notturne nei mesi di luglio e agosto).

Ciliegina sulla torta, una lunga ottobrata (dopo una breve finestra piovosa a inizio mese) che ha accompagnato le ultime settimane di maturazione dell’aglianico, di nuovo con giornate luminose e solari, sbalzi termici vertiginosi, arieggiamento costante. Parzialmente più capricciosa infine la prima metà di novembre, ma niente che abbia creato reali difficoltà ai vignaioli dell’Alta Valle del fiume Calore, la maggior parte dei quali ancora abituati in quel periodo a raccogliere sempre e comunque dopo la festività dei Morti.


Taurasi 2008 | Profili produttivi ed espressivi

Ma il vino è quanto di più lontano ci sia dalla matematica e sappiamo fin troppo bene come ad una grande annata dal punto di vista climatico e viticolo non corrisponda automaticamente una grande annata nel bicchiere. O meglio, conosciamo sempre più la difficoltà di distinguere e maneggiare separatamente i due aspetti: quelli che afferiscono alle variabili vendemmiali in senso stretto e quelli che riguardano questioni produttive molto più generali. L’annata che trasforma tutto in oro non esiste da nessuna parte, non ci stancheremo mai di ripeterlo.

La nostra orizzontale ingloba questa complicata dicotomia con un’efficacia clamorosa. Da un lato suggerisce che la fama agronomica della vendemmia è totalmente meritata:

  • nessun vino meno che integerrimo e con prospettive evolutive o di tenuta come minimo decennali ancora davanti;
  • impianto fruttato tonico e carnoso, raramente attraversato da sensazioni “verdi” o al contrario da toni surmaturi;
  • bocche potenti ma costantemente sostenute da energia nervosa e vigore sapido;
  • tannini copiosi ma perlopiù di grana fine e succosa: si sente forte e chiaro il timbro di un millesimo basato su materie prime di qualità, raccolte a maturità zuccherina e polifenolica pressoché ideale.

Dall’altro evidenzia una volta di più tutte le contraddizioni che la denominazione si porta dietro da tempo immemore. Inutile ripetersi. Anche a fronte di un’annata così favorevole in vigna e in cantina, anche quando i vini mostrano una positiva risposta tecnico-analitica e una ottimale dotazione “componentistica”: il Taurasi resta una tipologia tutt’altro che contemporanea per cifra espressiva e agilità di beva, molto difficile da approcciare, decifrare e godere (a maggior ragione senza supporto gastronomico ad hoc, che non è certo quello della cucina quotidiana).

Più in generale, il distretto non smette di configurarsi come una specie di blob senza un vero filo conduttore, senza veri GPS territoriali e stilistici, senza veri leader capaci di diventare punti di riferimento inclusivi o di fare realmente scuola al di fuori di un approccio personale, istintivo ed anarchico.

Un limbo amniotico dove oltretutto appare sempre meno spendibile il jolly longevità, e relativi bonus di fiducia e pazienza da accordare. Perché dopo 15-20 anni ce la meritiamo almeno un po’ di armonica souplesse, sottolineava giustamente il buon Eugenio. Quella che trovavamo sempre, sempre, sempre nelle Riserve di Mastroberardino del secolo scorso, e che oggi affiora solo saltuariamente a mo’ di eccezioni sparpagliate.


Taurasi 2008 | I migliori assaggi

Detto questo, almeno tre vini in grado di tenere la partita aperta e di placare i nostri spiriti più bellicosi li portiamo via dall’orizzontale 2008, e scusate se è poco.

Il più “ecumenico” è senza dubbio il Taurasi di Pietracupa-Sabino Loffredo, il primo interamente prodotto dalla vigna di proprietà impiantata negli anni 2000 a Campoceraso, località situata a cavallo fra i comuni di Venticano e Torre le Nocelle, valorizzata dalla famiglia Struzziero già a partire dagli anni ’80 col suo omonimo cru di Taurasi. Onestamente non lo ricordavo così stratificato, elegante, completo: tiene insieme l’anima speziata quasi rodanesca con una fibra tattile perfino gaioleggiante. Grande vino.

Molte più finestre di ragionamento si aprono davanti a un Poliphemo di Luigi Tecce che sembra nato apposta per dividere. L’impatto di salamoia e animelle non è esattamente quello che apprezzano di solito tecnici e bevitori di approccio “grammaticale”, ma che bocca signori miei: per distacco la più saporita, slanciata, coinvolgente, libera, dissetante, vitaminica. Lontanissimo da ogni memoria di classicità taurasina novecentesca, eretico ed eterodosso fino al midollo, eppure il tipo di rosso irpino che vorrei sempre nella bisaccia da viaggio.

E poi, non certo a sorpresa considerando i promettentissimi assaggi precedenti: la Riserva di Michele Perillo (sempre più da intendere “parte per il tutto”, alla luce del supporto a tempo pieno dei figli Felice e Nicola). Qui, ma solo dopo paziente e prolungata ossigenazione, le suggestioni sono nettamente serralunghiane: nel gioco di mirtilli, gelsi, liquirizia, tabacco, terra mossa, ma anche nel sorso tridimensionale, tanto prestante quanto cesellato nella trama. Rispetto agli altri due compagni di podio sconta qualcosa in termini di scioltezza in questa fase, ma è probabilmente quello che regalerà le maggiori soddisfazioni nel lungo, anzi lunghissimo termine (se ne avete e non siete vecchi come il sottoscritto, provate a tenerne una da stappare alla mezzanotte del 2050).

Un gradino sotto, ma in ogni caso su livelli elevati rispetto agli standard della denominazione:

  • un Coste di Contrade di Taurasi limitato da un’impronta aromatica un po’ confusa e da una certa prepotenza alcolica, ma brillantemente riscattato dalla sua tipica scia salina, piccante e vulcanica;
  • la coppia de Il Cancelliere (il “ringerAglianico Gioviano e il Taurasi Nero Né), ma di nuovo non bisogna avere problemi con le note “ematiche”selvagge” per concentrare tutta l’attenzione sulla loro pregevole naturalezza di beva;
  • il Renonno di Salvatore Molettieri, decisamente più fragrante, dinamico e bilanciato del Vigna Cinque Querce pari annata;
  • una Riserva dei Fratelli Urciuolo magari un po’ “bordolese” nell’idea stilistica (ribes nero, edera, noce moscata, cacao, scatola di sigari), ma rigoroso e compatto nell’incedere gustativo, con tannini fitti e maturi.

Fin troppi vini convincenti rispetto alle premesse iniziali, sottolineerà qualcuno. Allora ok, per questa volta lasciamo le vigne di aglianico dove sono, ma da una denominazione che arriva a stento al milione di bottiglie complessive e che in tanti continuano ad evocare – magari solo per pigrizia – come “Barolo del Sud”: è legittimo e perfino doveroso pretendere di più, se davvero l’ambizione è quella di giocare con i grandi.

% Commenti (1)

Ciao! Immagino che in tutto dev’essere stata una degustazione eccezionale. Puoi mettere anche la lista dei vini provati? Nella foto non vedo per esempio Alta Valle di Colli di Castelfranci.

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