C’è tanta frustrazione quanta bellezza nel manifestarsi dell’evidenza che il vino raccontato, sezionato, punteggiato, venduto, identificato, non sarà mai all’altezza del vino realmente bevuto. Non perché “di più” o “di meno”, ma perché totalmente altro.
Come si fa a spiegare, valutare, classificare davvero il sapore di un grande vino artigiano? Come si restituisce efficacemente a parole quel sapore che per la tua triade testa-lingua-viscere ha totalmente senso chiamare roccioso, lacustre, marino, montano, fluviale, iodato, salmastro, pietroso, gessoso eccetera, ma che probabilmente significherà poco per chi ti legge/ascolta?
Con i vini ordinariamente buoni e pure ottimi il “dilemma” neanche si pone: di aggettivi ne bastano tre, quel sapore lo conosciamo e ci capiamo, tra un sapore e un altro non c’è tutta questa differenza.
A mandare in crisi, si fa per dire, sono quei “pezzi unici” che nemmeno hanno bisogno di rivendicarla con maschere e costumi, la propria natura aliena. Concentrando tutto in quel sapore che non hai trovato e non troverai mai da nessun’altra parte.
Perfino più di Valentini, per me, Montenidoli è l’emblema di questo splendido enigma. Una magia che si rinnova ogni volta e che ti fa sentire più ridicolo del solito il riflesso pavloviano del punteggio, dell’elenco di descrittori, dell’immagine pseudo poetica, e così via. Pura sinestesia.
In particolare Fiore e Tradizionale, e senza neanche bisogno della super annata: quel sapore li, lago salato lo chiamano le mie sinapsi in libera uscita, è suo e solo suo. Di una Vernaccia di San Gimignano come nessuna, di un bianco di carisma mondiale che può sedersi e conversare a tavola con chiunque. La voce liquida solfeggiata alle stesse frequenze di quella gigantessa che è Elisabetta Fagiuoli.
