Non è una regola, ma nei Campi Flegrei accade di frequente che le annate più calde generino i vini meno espressivi nel pronti via e più bisognosi di tempo. Sia sui bianchi da Falanghina sia sui rossi da Piedirosso: solo una delle tante particolarità, talvolta paradossali, che rendono la zona così enigmatica, quasi esoterica.
Istruzioni per l’uso che si amplificano esponenzialmente quando ci sono di mezzo le bianche etichette apeggiate di Peppino Fortunato, alias Contrada Salandra. Il vino “emersivo” per antonomasia, nella mia esperienza: sempre buio, silenzioso e monastico a primo impatto, al punto da spaventarti, pensando a un improvviso calo di vista, udito, olfatto, tatto e gusto. E che poi, senza quasi fartene accorgere, ti trascina in superficie: tra colori pastello, cinguettii primaverili, brezze marine, integratori salini, erbe umide. Passetto dopo passetto, come un lombrico risalente da pozzo profondissimo che una volta fu caldera.

La 2017 non fa eccezione: lentissimo al limite della esasperazione nelle fasi placentari, infantili e puberali, eppure portatore di una luce che nessuno poteva anche solo sospettare, ora che inizia a flirtare con adolescenza e gioventù.
Ma onestamente queste sono solo chiacchiere per allungare il brodo, ché sarebbe bastato dire che:
1) io un bianco italiano del 2017 così lo devo ancora sentire: niente gli si avvicina, finora, per compattezza, energia, qualità di sapore, fibra tattile;
2) in Francia, che so in Loira, la Falanghina di Contrada Salandra costerebbe 50 euro, andrebbe via solo su assegnazione e sembrerebbe anche un grande rapporto qualità prezzo. Invece ne costa poco più di 10 e ancora c’è qualcuno che ci pensa tre volte prima di andare a Pozzuoli a prendere tutto.