Arrivasse da una di quelle zone d’Oltralpe che giustamente ci piacciono tanto, lo pagheremmo almeno il triplo e con tutta probabilità lo considereremmo un best buy.
Meglio così? Da bevitori di classe media con potere d’acquisto progressivamente eroso: sicuramente. Da irriducibili ingenui idealisti a caccia di una seppur sommaria logica meritocratica: un po’ meno.
Anche perché in teoria ci sarebbero tutti gli ingredienti contemporanei per l’hype definitivo: i terrazzamenti, la “viticoltura epica”, le altimetrie appenniniche, le trasparenze sottrattive, le martellanze sangiovesiche e le leggerezze nordiche vista Mediterraneo.
E poi l’esattezza calviniana: secondo i manuali, come ogni Lamole Doc (pardon, Uga) dovrebbe sapere – anche – di ferro e sangue: e guarda un po’, sa proprio – anche – di ferro e sangue. Ma mia mamma che, comprensibilmente, non sarebbe entusiasta di bere un vino che sa di ferro e sangue, più di tutto ci sente quel tripudio di erbe e spezie fatto apposta per condire ciccia buona.
Ennesimo gioco di prestigio della zelighiana annata 2019, che gli regala un meraviglioso tocco “scozzese”: popolo freddo solo per latitudine, capace di far ridere, saltare, ballare, abbracciare perfino un orso come me, non solo nei week-end alcolici.
Felice come un Berrettini di averne fatto efficace scorta.