La morra irpinese funziona così:
– se vuoi vincere con la mossa del carpe diem, stappando e godendo giovane che domani non si sa -> gioca carta (bianca) e rivolgiti altrove, magari nei vicini Sannio e Campi Flegrei
– se vuoi vincere con la tattica del serpente marino, nella quasi-certezza di prendere in controtempo l’avversario con un bianco ultradecennale integro e rifinito, anche pescando più o meno a casaccio -> gioca forbice Fiano atteso con pazienza
– se per vincere ti fidi del solo istinto bioenergetico e delle faccende aromatiche non ti è mai fregato niente, ben prima delle paranoie da pandemia -> gioca sasso Greco e non guardarti indietro.
Il G 2010 di Sabino Pietracupa sembrava poter essere il bug che fa saltare il triello messicano: il jackpot della slot, l’asso-kappa del Black Jack, lo zero verde della roulette che ramazza tutte le fiches.
Sembrava. Perché dopo i fuochi d’artificio mimetici dell’uscita, il suo profilo Greco si è preso l’intero palcoscenico, con tutte le virtù, ma pure i vizi, tipo le scissioni sniff-slurp, le giallezze sciroppate e un’idea di evoluzione arrivata precocemente, ancora una volta.
Le ultime 3-4 erano tutte su questa scia lacerata: promesse non mantenute, nonostante l’intatta potenza rocciosa e salmastra.
Poi ti capita una bottiglia così: colorata sì ma anche di agrumi, macchie, curry; evoluta ma anche nel senso di profonda e complessa senza cedimenti; saturante nella pervasività di sorso; semplicemente stupenda e completa: e rinunci a capire over and over again, tanto chi ci riesce, nemmeno i cavalieri dello zodiaco.