
Per non dimenticare le bottiglie stappate e farci compagnia a distanza. Aspettando, rinchiusi tra casa e cantina, che passi la bufera; esorcizzando virus vecchi e nuovi, e sognando l’inizio di un mondo migliore.
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C’è bisogno di una seria leggerezza. Niente angosce ma allo stesso tempo pensieri lucidi e profondi, magari con qualche svolazzo qua e là. Cerco il vino adatto. La prima bottiglia non mi convince, la lascio aperta e spero che l’ossigeno la sgombri di qualche nuvolone nero. Stappo finalmente quella giusta, anche se la primavera va attesa, non arriva di fretta come quella della Goggi.
Il Chianti Classico ’17 de I Fabbri ha sempre accolto chi lo scruta con diffidenza. Riduzioni, per quanto mi riguarda positive, ma pur sempre riduzioni. Humus e terriccio, prima dello scatto sanguigno che annuncia la tipica nota ferrosa di Lamole. Ma il meglio arriva strada facendo e si manifesta nell’eccitante freschezza dei profumi di prati in fiore, violette e margherite, e delle bacche appena mature, ribes rossi e qualche mora. Il frutto nero c’è, complice l’annata, ma è ben integrato e mai presuntuoso.
Forse sono proprio i 650 metri d’altezza delle vigne a far compiere il miracolo, consegnando un rosso francamente sorprendente per le calure e la siccità del millesimo. Nei profumi, già detto, e soprattutto nel sorso: sostanzioso quanto aereo, magnifico nel massaggio tannico che dispensa sapore. Uno straordinario equilibrista, sul filo di una vendemmia complicata.