Digressioni Sabatiche #9 | Il Mondiale di Ciclismo (nel) deserto

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Se siete maniaci come il sottoscritto, senz’altro sapete che domani è in programma la corsa in linea del Mondiale Ciclismo Elite, edizione 89.

La prima di fatto senza pubblico in quasi un secolo di storia. Perché si gareggia nei dintorni di Doha, capitale del Qatar, non esattamente il Belgio quanto a tradizione ciclistica, per numero di appassionati e praticanti. Aggiungiamoci un percorso che definire atipico è eufemismo, con i primi 150 km nel deserto e gli ultimi nel circuito ricavato sull’isola artificiale di The Pearl, piatto come una tavola da biliardo. E soprattutto i circa 40 gradi di temperatura previsti, con vento shamal annesso: le stesse condizioni limite che hanno consigliato lo slittamento a dicembre del mondiale Fifa 2022.

Si è detto e scritto tanto sulla sede scelta dall’Unione Ciclistica Internazionale. E di motivazioni che hanno a che fare naturalmente perlopiù con capricci di emiri e petrodollari, come già accaduto per la Formula 1 e le acquisizioni pallonare a Manchester, Londra, Parigi, e compagnia. Dal prossimo anno debutterà il Bahrain Cycling Team Merida, la prima squadra di licenza World Tour con sede in Penisola Arabica. E proprio il nostro Vincenzo Nibali ne sarà uno dei capitani: è la nuova frontiera, sembrano tutti d’accordo, e vale la pena darsi qualche pizzico sulla pancia per sopravvivere all’estinzione del mecenatismo occidentale in forma di sponsorship.

Niente di nuovo sotto il sole (cocente), dunque. E però non penso di essere l’unico a trovare tutto ciò lunare. Mi sfuggono le ragioni di tenere in vita delle cose, non parlo solo di sport, in luoghi lontani dalla fruizione di un pubblico “reale”. Come se davvero l’audience televisiva bastasse di per sé a determinare le regole dello show. Show per modo di dire, se dei professionisti sono costretti a correre con delle enormi barre di ghiaccio sotto la maglietta per non collassare, come già accaduto nei primi giorni di gare.

O, peggio ancora, come se ci fosse un preciso disegno in tal senso: tenere le persone il più possibile nelle proprie case, sui propri divani, ben connessi ma rigorosamente a distanza. Ora, io non ho mai creduto all’esistenza di una Spectre che pianifica assoggettamenti orwelliani a lungo termine. Penso piuttosto che siamo noi a concederci spontaneamente, e sempre più inconsapevolmente, all’oscuro richiamo della protezione misantropica. Una forza tipo Matrix, che a nessuno appartiene ma tutto domina, impiantando come virus l’idea di una vita in ultima analisi più facile, gestita da remoto.

Forse ho solo letto troppo Philip Dick ultimamente (colpa della banda di Rumore Biancolink), ma non vedo all’orizzonte un signor Anderson destinato a liberarci da questa gabbia con sembianze di placenta. Sempre più insidiosa ogni volta che finiamo per considerare normale, anzi inevitabile, la progressiva delocalizzazione delle attività umane. Comprese quelle non esattamente legate a bisogni primari, come il ciclismo agonistico. 

Ecco perché, per la prima volta in 28 anni, non seguirò in tv la corsa iridata: esticazzi, direte voi giustamente. Ma, pur avendo chiara l’assoluta puerile inutilità di certe “soluzioni”, mi somministro la pillola rossa e con lo scolapasta in testa vado in giro per le case. A spiegare che oggi fai da spettatore virtuale ad un mondiale nel deserto, e domani nemmeno ti interesserà sapere se e dove qualcosa si svolge davvero. Suggello, e forse bacio di morte, a quella profezia per cui, dopo tutto, «l’assenza è solo una più acuta presenza».

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