Digressioni Lunatiche | Addio Olimpiadi, beviamoci su

collage finale

Tranquilli, questa è l’ultima: giuro. Torniamo presto a parlare di magnà e beve, ma un’appendice me la dovete concedere, dopo due settimane di “programmazione olimpica”.

Innanzitutto per ringraziare quanti ci hanno seguito sulla nostra pagina Facebook (link). Abbiamo sempre evitato dati e statistiche autoreferenziali, ma era francamente inimmaginabile un riscontro così per uno spazio nato con tutt’altre finalità. Meno off-topic di quanto possa sembrare, comunque, perché tra una gara e l’altra ne abbiamo approfittato per farci qualche domanda più generale sul senso della scrittura e del racconto nel nostro campo di gioco abituale.

Camera di decompressione e palestra, dunque. Erano anni che non tenevo un diario, ed è stato come tornare ragazzo sotto molti punti di vista. Serve tempo ma più di tutto stimoli per alimentare il “flusso di coscienza” e connetterlo ad una dimensione partecipata e condivisa. E mi rendo conto ogni giorno di più di quanto il cibo e il vino siano invece impantanati nel paradosso. Sulla carta sono ambiti di interesse ad altissimo potenziale di aggregazione e leggerezza, nella realtà continuano a generare gravosità e polverizzazione, fino all’irrilevanza.

Nessun tentativo di chiamarsi fuori, sia chiaro. Ci siamo dentro fino al collo, e proprio per questo proviamo ad esplorare nuove strade, in qualche modo “laterali”. Che si parli di Usain Bolt o del Monfortino, della Pellegrini o di Vissani, nessuna efficacia è possibile se le parole vengono svuotate del loro significato. Una narrazione che basa tutto sull’iperbole e sull’ossessione uguale e contraria per le gerarchie non ha presente né tantomeno futuro. Le belle storie non mancano di certo tra vigne, dispense e cucine, ma è forse più importante oggi – anzi, decisivo – saper riconoscere quelle che non meritano di essere raccontate. E’ decisamente un setaccio a maglie larghe, che consente alla fuffa di penetrare nei giacimenti di storytelling enogastronomico, e appuntamenti di respiro mondiale come le Olimpiadi servono anche a ricordarcelo. A meno che non sia proprio la riserva indiana la casa che desideriamo.

medagliere

Mi vengono in mente ben poche cose più tristi dei “bilanci da ultimo giorno di scuola”. Anche perché ognuno si è fatto la sua idea, qualcuno dal 5 di agosto, su Rio 2016, sul messaggio di fondo delle rassegne a cinque cerchi, sulle contraddizioni socioeconomiche e politiche, e naturalmente sui risultati della spedizione azzurra. Ci ritorno ugualmente, perché le faccende sportive si rivelano ancora una volta solo un punto di partenza per ragionare su altre questioni che ci stanno maggiormente a cuore.

L’Italia chiude al nono posto nel medagliere, con 8 ori, 12 argenti e 8 bronzi, per un totale di 28 podi. Risultato sostanzialmente in linea con le due precedenti edizioni di Pechino e Londra. A me sembra un piccolo grande miracolo. E a maggior ragione dovrebbe stupire, o meglio shockare, i connazionali convinti di vivere in un Paese da terzo mondo. Restano dietro superpotenze sportive, e non solo, come l’Australia, il Canada, l’intera Scandinavia, i padroni di casa del Brasile, la stessa Spagna. Ed è favorevole anche il computo ponderato in rapporto alla popolazione: fanno meglio soprattutto Gran Bretagna (attenzione alla Brexit, però), Corea del Sud, Olanda e Ungheria, ma l’Italia è davanti addirittura a Cina e Russia.

E’ insomma una top ten “vera”, al netto delle sfuggenti distinzioni tra medaglie leggere e pesanti. Da una parte è innegabile che gli azzurri, anzi i neri armaniani, abbiano faticato nelle discipline a maggior diffusione e competitività globale, come l’atletica, il nuoto e buona parte degli sport di squadra. Dall’altra non bisogna dimenticare che tutti i principali Paesi hanno i loro specifici serbatoi di medaglie tra le specialità meno seguite dal grande pubblico. Mi chiedo in base a quale logica dovrebbe valere di più un successo nella canoa, nel badminton, nel taekwondo o nel sollevamento pesi rispetto ad uno nella scherma, nel tiro a segno, nel judo. Dico di più. Tendo a “fidarmi” maggiormente di una vittoria in discipline dove la preparazione tecnica e mentale conta almeno quanto quella fisica, e di conseguenza meno “aiutabili” dal medico-farmacista di turno (altro settore in cui l’Italia, ahinoi, è storicamente all’avanguardia).

Crediti foto: sportfair.it
Crediti foto: sportfair.it

Ma le ciliegine sulla torta non mancano, a volerle vedere. Il trionfo annunciato, e proprio per questo pericoloso, di Gregorio Paltrinieri nei 1.500 stile libero, ad esempio. O quello assai meno scontato di Elia Viviani nell’Omnium (ciclismo su pista), probabilmente il più “adrenalinico” per come è arrivato. Ma anche i due bronzi di Gabriele Detti (400 e 1.500 metri stile libero), le due medaglie di Tania Cagnotto nei tuffi, gli argenti della pallanuoto femminile e del volley (indoor e su sabbia), dal sapore amaro proprio per la consapevolezza di un’occasione mancata. A volte si ha l’impressione che i “nostri” tendano inconsciamente ad accontentarsi quando sono sicuri del podio, ma anche questo è un tratto ricorrente nella storia olimpica azzurra.

Si può sempre fare di più, inutile sottolinearlo, ma chi parla di flop Italia (e ce ne sono, basta scorrere le bacheche) dovrebbe spiegare su che basi si poggiavano aspettative superiori. Nell’ultimo quadriennio non sono state realizzate nuove strutture sportive nella mia città, al contrario: alcune precedentemente funzionanti sono ora inutilizzate o dismesse. Nella vostra? E poi: dopo Londra, non mi pare sia cresciuto granché lo spazio dedicato ai cosiddetti sport minori, nei palinsesti come nel vissuto quotidiano. Per non parlare delle risorse investite, non solo economiche, su vivai, accademie, progetti tecnici, eccetera. Sviluppo e sostegno di una cultura sportiva a tutto tondo non appaiono certo fra le priorità sociopolitiche da almeno un ventennio a questa parte, ma i continui tagli di budget non fanno ovviamente rumore, se paragonati a quelli di scuola, sanità, pensioni, e welfare assortito. Spending review compensate solo in minima parte dall’impegno dei privati, dato che i grandi sponsor continuano a tenersi lontani da tutto quanto non sia calcio. Per cui fa un po’ ridere se pensiamo di fare la corsa come per magia su Inghilterra, Germania, Francia (ma anche il blocco dei paesi dell’Est) quando si distribuiscono le medaglie.

innocenti
Eppure siamo lì a giocarcela e ad ottenere rispetto da chi preferirebbe piuttosto la sedia del dentista all’elogio italico. Saranno pure cliché stra-abusati, quelli dei poveri ma belli-tutto cuore-che risorgono dalle ceneri, ma l’andamento di Rio 2016 sicuramente non ha fatto nulla per smentirli. Conserviamo il posto nel G 10 olimpico con gli stessi strumenti che ci tengono in qualche modo a galla in altri settori. La solidità della piccola e media impresa sportiva, innanzitutto, azionista di maggioranza nel fatturato di podi e soddisfazioni. Grazie a nomi sconosciuti ai più, a storie umane ed agonistiche continuamente in bilico tra dilettantismo e professionismo, specialmente per chi non ha fortuna e bravura di essere ingaggiato dai gruppi atletici dei corpi militari. Limiti e debolezze che sanno trasformarsi in opportunità, proprio per quella innata capacità di farsi bastare quel che si ha a disposizione e adattarsi creativamente. Esistono ancora discipline prestigiose in cui si può vincere in questo modo, se c’è il talento ad accompagnare. E nella spedizione azzurra non ne mancava, come non manca nel sistema-paese, senza inutili renzismi.

Il mio luna park preferito chiude fino a Tokyo 2020, e non ero ancora pronto. Lo sarei di più, se la malinconica scia di commiato liberasse un contrappeso di analisi, idee, progetti ben al di là della dimensione strettamente sportiva. Come briciole disseminate lungo il sentiero, come i compiti assegnati per casa: un incubo anche per chi decide di rischiare ed ignorarli, e pur sempre un tarlo che presidia ogni passo avanti. Ma non mi faccio illusioni, è già un lunedì calcistico e so bene che ora dopo ora sono sempre meno quelli che hanno voglia di chiacchierare su Marco Innocenti e Daniele Garozzo, per dire. Ma se condividete lo stesso disturbo monomaniaco-compulsivo, fermatevi ancora qualche minuto qui, non lasciatemi solo. Mano sul cuore, cavatappi nell’altra, brindiamo alle utopie mentre gridiamo Adeus Brazil.
 

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