
Le sale d’attesa dei reparti di lunga degenza sono campeggi a cielo chiuso.
Ciascuno con la sua piazzola, condividendo servizi e spazi e vuoti.
Non è l’apnea del pronto soccorso, l’attimo tra un prima e un dopo: la sospensione è piuttosto desiderio, dove esiste solo il durante.
Non si aspettano notizie, nelle sale d’attesa dei reparti di lunga degenza.
Nessuna nuova buona nuova fu coniato lì, tra l’estintore e la porta di emergenza.
Allelujah comunitario di liturgia permanente, con gli involucri nonneschi delle caramelle Rossana al posto delle ostie.
Non c’è differenza tra malato e convalescente, nelle sale d’attesa dei reparti di lunga degenza.
E hanno tutti gli stessi occhi, accompagnati e accompagnatori.
Pazienti di nome e di fatto. Anche quando ritardi e malfunzionamenti pretendono un volto a cui chiedere conto del tempo sottratto ad altro tempo congelato.
Perché non ci sono rifugi solitari, nelle sale d’attesa dei reparti di lunga degenza.
Né maschere dietro le mascherine. Nudi per obbligo e scelta: spogliati da un referto e impomatati da creme solari al sapor di omissione.
E si ride tanto, nelle sale d’attesa dei reparti di lunga degenza.
Ne basta uno col buonumore in tasca, purché armato di opportuna inopportunità. Senza chiedere permesso, guai, per innescare discorsi comuni di gente comune con nulla in comune tranne tutto ciò che gli importa.
Cambia la storia gastronomica del mondo, nelle sale d’attesa dei reparti di lunga degenza.
Migliorare il migliorabile, magari una ricetta. Un nuovo fornitore, un ingrediente mai considerato, un’inversione di processo: cucina orale, sempre e per sempre, come in ogni famiglia allargata.
Di tanto in tanto si sovverte l’ordine costituito, nelle sale d’attesa dei reparti di lunga degenza.
Notai e disoccupati, giovani e pensionati, piegati al passaggio dei medici in un istintivo sire pietà. Scoprendo presto che il vero potere non è nei loro stetoscopi, ma nel matriarcato infermieristico (maschi inclusi) che tutto disciplina, ingarbuglia, anestetizza, sistema.
Nelle sale d’attesa dei reparti di lunga degenza si gioca con Agatha Christie, anche senza averla mai letta.
Dieci piccoli indiani, che non saranno tutti proprio tutti insieme la volta successiva.
E nemmeno quella dopo: sai, è rientrato in ufficio, ha aperto un chiosco a Punta del Este, attraversa il Pacifico in barca a vela, aspetta un figlio.
Decidiamo che è così, conferme non servono. Ad ogni modo beati loro, hanno chiuso con questa storia. E bocca di fiele a chi resta, per l’invidia del prigioniero o il senso di colpa del sopravvissuto.
In compenso c’è sempre un nuovo vicino di tenda da accogliere, nelle sale d’attesa dei reparti di lunga degenza.
A cui chiedere del viaggio che l’ha fin lì condotto: lo racconterà, a prescindere dal suo volere.
A cui spiegare le regole, specialmente le più assurde: le capirà, che ne sia in grado o meno.
A cui passare il testimone, prima che la paura prenda il sopravvento e la catena si spezzi.
Arrivederci dopo arrivederci, benvenuto dopo benvenuto, il vento continua a spettinare le chiome rasate nel campeggio a cielo chiuso di certe sale d’attesa.