
Come avrebbe detto il grande Albertone da Castel de’ Britti, “chi mi conosce lo sa”: considero ridicole le dispute sulle cosiddette primogeniture, in materia di vino e non solo.
Mi interessa il come e il cosa, assai più del quando, a maggior ragione in tempi come questi. Bulimici di nuove storie da consumare e rigurgitare in fretta, come beni deperibili, prima di passare alla successiva. Col paradosso di racconti e trame che precedono il loro reale ed effettivo svolgimento. Da rivendicare orgogliosamente quando il trailer si dimostra più o meno fedele al film. Da ignorare serenamente quando le promesse, ammesso che ci fossero, non vengono mantenute.
Quello che mi frega è la memoria. Vivrei decisamente meglio, almeno un po’, se riuscissi sistematicamente a rimuovere le cantonate prese “in servizio” con la naturalezza dei più. Li vedo accapigliarsi ogni giorno su chi ha parlato prima di cosa. Ma raramente li ritrovo ad occuparsi delle “vecchie scoperte”, annunciate come il prossimo questo e il più grande quello, poi abbandonate rapidamente in una sorta di limbo, senza tanti rimpianti.
Me ne sovvengono tante, di vicende così. Soprattutto nella mia Irpinia, passata in meno di trent’anni da cinque a centocinquanta aziende. Un vero e proprio paradiso per i cacciatori di novità a tutti i costi, ma anche un cimitero di progetti incompiuti, ambizioni tradite, emergenti mai realmente emersi. E’ l’altra faccia dell’incoraggiamento a prescindere: la sottovalutazione dei danni derivanti da investiture precoci come certe eiaculazioni.

Gli errori sono per molti versi inevitabili, indipendentemente dalle tempistiche “editoriali”, ma a furia di sbatterci la testa sono diventato sempre più guardingo con le cantine esordienti, o giù di lì. Non è per prudenza, tuttavia, che ho impiegato oltre dieci anni per decidermi a scrivere di Luigi Tecce e dei suoi vini, schede guide e discussioni forum a parte. E probabilmente avrei atteso ancora, se non vi fossi stato in qualche modo costretto dal focus “A tutto Taurasi” curato per il numero 59 di Enogea *.
Conobbi l’artefice del Poliphemo e del Satyricon nell’autunno del 2004, in un’enoteca di Avellino. Si beveva Terlano, chiacchierando di Aglianico ed exploit montemaranesi, al loro apice proprio in quelle settimane. Finché non spuntarono fuori un paio di bottiglie: «Capiamoci subito, è uno scherzo», ci tenne a premettere Luigi, con tono deciso. Ben riuscito, avrei voluto rispondergli. Ma non lo feci, e per lungo tempo sono rimasto a chiedermi se il gioco si sarebbe mai trasformato in qualcosa di seriamente strutturato.
Sappiamo come è andata, le celebri etichette disegnate da Vinicio Capossela sono oggi ben note nella comunità dei bevitori più attenti alle realtà artigiane. Tra i pochissimi rossi irpini, oltretutto, che necessitano di prenotazione-assegnazione. Eppure il Luigi vignaiolo e libero pensatore resta per me ancora un rebus irrisolto. Leggo tante cose giuste nei numerosi ritratti che gli vengono dedicati da quando ha potuto e voluto “scendere in campo” con la sua piccola ma fruibile gamma. Però mi pare manchi regolarmente il dettaglio rivelatore, quello che distingue il personaggio da format e l’uomo, infinitamente più interessante nelle sue contraddizioni.
Schiettezza e pudore non sono necessariamente alternativi, e i suoi vini lo spiegano perfettamente. Protesi liquide di un’intimità deflagrante, in ultima analisi inafferrabile. Rossi di lotta e di governo, anarchia e pianificazione, istinto e ragionamento. Impregnati di dubbi e rivendicazioni, velleità e rinunce, fatalismi e preoccupazioni. Impossibili da raccontare con unico registro e un solo coro greco di giubilo. Che a ben vedere gli fa torto più del rilievo critico: non possono e non devono piacere sempre e a chiunque, se davvero sono generati da forze così contrarie, come credo.
L’Alta Valle del Calore taurasina aveva tremendamente bisogno di un interprete come Luigi Tecce, ma non tutte le sue creazioni mi coinvolgono e conquistano allo stesso modo e in ogni fase. Oscillazioni violente, ritrovate anche negli ultimi assaggi sui cru in affinamento. Dal Satyricon 2015 alle coppie di Taurasi 2014 e 2013, annata a partire dalla quale al Poliphemo si affianca il Purosangue (che uscirà però un anno dopo, nel dicembre 2018, mentre i due 2014 saranno presentati insieme, nel dicembre 2019). Si può dire tutto e il contrario di tutto, incontrandoli adesso. Allora meglio non dire nulla, credo. Solo l’arteteca curiosa di capire cosa diventeranno e quante volte mi faranno cambiare idea.
Ma è nel momento in cui Luigi mette mano al coltello e al tagliere, che mi sembra di avere davanti la chiave. Scende la pace nella piccola tavernetta dietro la cantina, e si illumina l’altra faccia della luna tecciana. E mi viene naturale ricambiare, porgendo la mia. La chiacchiera si fa bellezza, e penso che non potrei sentirmi meglio di così.
Quell’attimo in cui ogni cosa è al suo posto, fuori e dentro il bicchiere. Il vino da merenda e compagnia che nemmeno il suo autore immaginava, forse. Stappato a pochi giorni dalla scomparsa di chi lo ha ispirato: Filomena Memmolo, la madre di Luigi. Maman, il primo bianco “ufficialmente” in listino (ma non è ancora detta l’ultima parola), uvaggio a maggioranza greco (45%), con fiano (25%), coda di volpe (25%) e moscato (5%), prodotto da macerazione sulle bucce di circa due settimane (la metà per il greco). Poco più di mille bottiglie: un gioco, e la storia si ripete.
Ora potrei annoiarvi con note tecniche e sottolineare per esempio che non c’è la minima traccia volatile od ossidativa, né impuntature lievitose o derive fenoliche. Ci siamo capiti, quelle che appesantiscono ed omologano quote purtroppo ancora consistenti di “orange wines”. Preferisco invece ritornare su quella leggerezza calviniana che vi dicevo, di un convivio senza paletti che disseta, come questo bianco. Che magari vorrebbe essere strano, per scoprire che gli strani siamo noi.
Un vino calmante, nel vero senso della parola, denso di connessioni: la camomilla e i cereali del greco, il vegetale nobile e il pompelmo fianesco, la flemma messicana della coda di volpe, col guizzo natalizio del moscato. Non particolarmente corposo o acido o salino o persistente, eppure senza vuoti di presenza, tranne quello nel bicchiere. La bottiglia finisce, e per una volta mi assolvo se non so renderne conto in una sintesi, un ritratto, un format.