
Avellino è il capoluogo amministrativo, ma la “capitale enogastronomica” dell’Irpinia è senza dubbio la vicina cittadina di Atripalda.
Dove generazioni di ghiottoni si sono rifocillati all’osteria Valleverde-Zi’ Pasqualina e migliaia di assetati hanno trovato la loro oasi alle cantine Mastroberardino. O, in periodi più recenti, al pub Ottavonano *, tra i principali templi birrari del meridione, e non solo.
Merito dei soci Gianluca Polini e Yuri Di Rito, che in tempi decisamente non sospetti hanno puntato su un lavoro a dir poco pionieristico di ricerca, formazione e divulgazione. Contribuendo in maniera fondamentale a far scoprire la dimensione plurale dell’universo brassicolo a tanti giovani (e meno giovani) fermi a bionda o scura, ghiacciata e doppio malto.
Degustazioni e serate tematiche si susseguono una dietro l’altra e non è un caso che l’Ottavonano sia diventato, tra le tante, una sorta di “Cantillon point”. E’ infatti uno dei 56 pub selezionati dalla mitica brasserie di Bruxelles nel mondo per il suo Zwanze Day. (link). Sodalizio ulteriormente suggellato dal recente viaggio in Irpinia del patròn Jean Van Roy, vera e propria guest star della tavola rotonda pomeridiana organizzata da Gianluca per l’occasione.

Come spesso mi capita, ho avuto bisogno di qualche settimana per lasciar sedimentare una serie di spunti, stimoli, riflessioni scaturite dall’incontro con Mister Cantillon. Riaffiorate prepotentemente negli ultimi giorni, con l’annuncio dell’acquisizione di Birra del Borgo da parte del colosso Ab InBev, leader mondiale del mercato brassicolo (superiore al 25% la quota stimata), grazie soprattutto ai marchi Beck’s, Stella Artois, Corona, Budweiser e tanti altri (da quel che mi risulta il sito Cronache di Birra è stato il primo a render pubblica la vendita – link)
E’ “la” NOTIZIA per chi segue il movimento craft mediterraneo. Segmento numericamente di nicchia, nonostante l’incredibile crescita dell’ultimo decennio, ma sempre più importante da un punto di vista strategico. Per la prima volta una multinazionale entra capo e piedi nell’arena artigianale italiana: qualunque sia l’opinione in merito, il fatto segna oggettivamente un prima e un dopo nella storia del settore. Lo testimoniano i tanti articoli, editoriali, commenti a tema usciti in poco più di una settimana, diversi dei quali di grande interesse e qualità argomentativa. Ho provato a raccogliere i più significativi nella piccola rassegna web che trovate in coda al post.
Nella comunità di appassionati e addetti ai lavori prevalgono per il momento reazioni critiche, per usare un eufemismo: c’è chi parla di “verginità perduta”, chi la considera solo l’ennesimo cavallo di Troia architettato dall’industria per scalare il comparto. Addirittura un “imperdonabile tradimento dello spirito craft” per diversi operatori, nonché influencer di lungo corso, destinato a generare immediati rimescolamenti commerciali. E’ plausibile, anzi, in alcuni casi è pubblicamente annunciato, che Birra del Borgo troverà meno spazio nelle roccaforti del bere indipendente.

Tra le prime dichiarazioni a caldo, c’è da registrare anche quella di Jean Van Roy. Vale la pena di (ri)leggerla: «Brewery Cantillon has fought for decades to promote and preserve traditional Lambic production. When big Belgian companies produced only industrial Lambic, my parents, Claude and Jean-Pierre, were almost alone to continue to produce this amazing beer in a natural way. Today real Lambic is playing an important role again, and we have to stay alert. For this reason, I decided to cancel the participation of Del Borgo at the next Cantillon Quintessence».
Nella sua ruvida asciuttezza, mi pare espliciti con grande efficacia la questione centrale di tutta la vicenda: una linea di demarcazione netta che separa e separerà sempre l’industria e l’artigianato brassicolo. Per criteri solo in parte codificabili attraverso disciplinari, ingredienti, tecnologie, volumi, parametri organolettici. Ma nondimeno eludibile da alcuna “terza via”. Il tipo di proprietà aziendale come primo e più importante discrimine. Il mondo craft si assume la responsabilità di dire proprio questo, e non credo di essere il solo a leggerci un rilievo per molti versi rivoluzionario.
La ridda di paradossi e contraddizioni è infinita. L’universo birraio, liquidato per decenni come “quello delle ricette”, più fabbrica che piccola manifattura, si scopre uno degli ultimi avamposti di resistenza visionaria. In maniera decisamente più radicale rispetto a quanto accaduto nel mondo del vino. Dove gli steccati sono saltati da quel dì, nell’identità imprenditoriale come nelle dinamiche mercantili e di consumo. Tanto per cominciare è perfettamente “normale”, e non da oggi, che cantine di primissimo piano, anche di piccole dimensioni, appartengano a grandi gruppi finanziari. O che il lavoro viticolo ed enologico non sia seguito direttamente, in prima persona, dalla proprietà. Così come non esiste di fatto alcuna separazione sugli scaffali delle enoteche e nelle carte dei ristoranti tra industria ed artigianato bacchico, ammesso che appunto si riesca a convergere su una definizione credibile. Per capirci, mi è capitato più volte di trovare fianco a fianco nella stessa lista i vini di Maule e Antinori, molto più raramente Peroni accanto a Montegioco.
Solo in tempi recenti il quadro si è rimescolato, dietro l’impulso della cosiddetta “corrente naturale”. Una vera e proprio chiamata alle armi culturale per alcuni, semplicemente una nuova chance commerciale per tanti altri. I tentativi di aggregazione fra gli artigiani più consapevoli non sono mancati, ma il più delle volte hanno generato ulteriori sparpagliamenti. E come logica conseguenza l’industria non ha tardato ad appropriarsi di temi, protocolli e dichiarazioni d’intenti germogliati in ben altri contesti. Conduzione bio, risparmio energetico, riduzione dei solfiti, e molte altre “parole chiave” trasversalmente utilizzate ormai nelle strategie di posizionamento.
I “vini naturali” si affermano sempre più come categoria merceologica, senza nulla togliere alle sacrosante premesse filosofiche e socio-ambientali. Ed è proprio su questo piano che emergono i maggiori punti di contatto con l’universo craft: partiti entrambi come nicchie, hanno senza dubbio tratto linfa da una rappresentazione mediatica “anti-sistema”. Che si rivela molto meno efficace, ovviamente, nel momento in cui ci si appropria di quote mainstream. E viceversa. Se non puoi batterli, unisciti a loro, recita il vecchio adagio. Ma qui non si tratta di vincere o perdere, perché la partita si gioca su più tavoli contemporaneamente.
Il comparto birraio italico sembra averlo compreso molto meglio rispetto a quello vitivinicolo. Agevolato dalla totale assenza di una qualche forma di tradizione stilistica nonché di gerarchie qualitative ed aziendali prefissate, col senno di poi. Là dove il peso di una storia ben più radicata ha determinato giocoforza meccanismi di riforma e controriforma attorno alla bevanda cara a Bacco. I vini “veri” come unica risposta alla chimica, alla concia enologica, all’omologazione del gusto. Steiner era un cialtrone, l’uva senza controllo diventa aceto, i naturali puzzano. Gira e rigira, si arriva sempre lì da vent’anni. Come se davvero la sfida si combattesse su questioni tecniche. E’ una macroscopica miopia, quella che spinge autorevoli esponenti del mondo “convenzionale” ad investire così tante energie nella demolizione pseudoscientifica dell’imbroglio naturale. Non si rendono conto che i due comparti sono marginalmente “concorrenti”, non solo per ragioni quantitative.

Le opzioni organic sono andate infatti a riempire uno spazio già perso dalla proposta “classica”: in certi tipi di locali, il vino semplicemente non sarebbe rappresentato senza il segmento “natural”. Altrettanto ingenua è la tendenza ad inquadrare il tutto in mera chiave modaiola. Sottovalutando gli effetti nel lungo periodo di un’alfabetizzazione sensoriale che segue ormai dinamiche molto diverse da quelle a cui siamo abituati. Non ha alcun senso aggrapparsi a categorie grammaticali se si vuole parlare a fruitori addestrati fin dalle prime bevute consapevoli a maneggiare, e ricercare, la più ampia libertà espressiva. La stessa idea del buono e del pessimo si modifica radicalmente, che piaccia o no, ed è un processo che la comunicazione enoica istituzionale sembra subire, più che guidare.
Le due bevande non sono mai state tanto vicine, da questo punto di vista. Sempre più spesso incrocio i bicchieri con appassionati under 30 che non hanno mai sentito parlare di Sassicaia, o Lafite, ma conoscono a menadito lo scenario “indie”. E si confrontano con modalità e parole molto simili a quelle che animano i ritrovi dei birrofili maniaci. In alcuni casi coincidono proprio i luoghi di bevuta, cosa per molti versi impensabile fino a ieri. Un dialogo inedito tra conservazione ed evoluzione: da una parte il rigore artigianale nella salvaguardia degli stili tradizionali, parallelamente creatività e capacità di sperimentazione come valori positivi, la novità come stimolo migliorativo.
Altro che avanguardia, certe dinamiche produttive e divulgative del mondo craft sono ancora autentici tabù nel dibattito enoico. Durante la tavola rotonda con Jean Van Roy, non ho potuto fare a meno di pensare a tutti quei vignaioli ed enologi che ci sarebbero rimasti secchi, alla prima slide sulle fermentazioni spontanee e le famiglie di brettanomyces. Domandandosi tra gli ultimi rantoli come faccia la gente lì attorno a trangugiare, per di più con somma allegria, quella robaccia muriatica che chiamano Lambic e Gueuze. Immaginavo poi le loro facce nel sentire mister Cantillon condividere la sua forte preoccupazione per i cambiamenti climatici, come cittadino e imprenditore. Shockandosi nell’apprendere che la birra non è necessariamente quel liquido impermeabile alle variabili delle vendemmie, del meteo e compagnia.

Suona sempre più anacronistico e fuori luogo, a mio avviso, l’atteggiamento di “superiorità” con cui l’esercito di Bacco ha guardato finora ai discepoli di Cerere. A maggior ragione quando ci rendiamo conto che il consolidamento della filiera craft è legato solo in minima parte a prezzi più bassi e concorrenziali. Il mondo del vino avrebbe tutto da guadagnare in una prospettiva di meticciato ed interscambio, tanto culturale quanto interpretativo. Non è un caso se collaborazioni e contaminazioni sono all’ordine del giorno perfino in aree di radicata identità viticola come quelle d’Oltralpe. Né sorprende che l’artigianato brassicolo di casa nostra si stia conquistando grande rispetto in Europa anche grazie ai risultati raggiunti con stili innovativi, ispirati dallo sterminato paniere di materie prime, uve, mosti e vini compresi.
La codifica delle Italian Grape Ale racconta meglio di tante parole lo spirito “crossover” ormai associato al comparto del Bel Paese. Ed è più facile comprendere, alla fine della fiera, la mobilitazione innescata dalle notizie degli ultimi giorni. Che Birra del Borgo mantenga o addirittura migliori il livello qualitativo della propria proposta, come prova a rassicurare Leonardo Di Vincenzo, è quasi ininfluente ai fini del ragionamento. E’ una posizione come detto dichiaratamente “politica”, che scaturisce dalla consapevolezza di poter reggere in qualche modo solo facendo fronte comune al cospetto di player dotati di strumenti finanziari e commerciali imparagonabili. Anche davanti alle migliori intenzioni iniziali, perché non è strutturalmente possibile giocare ad armi pari con loro in uno scenario globalizzato.
Sono realtà piccole, frammentate, parcellizzate, che quantomeno ci provano a muoversi come fossero nel loro insieme una piccola industria: una risposta ideologica, ma al tempo stesso tremendamente concreta. Impossibile prevedere se possa funzionare e durare, ma vale la pena di monitorarne con attenzione gli sviluppi. Una visione potente e vincolante, a prescindere dagli esiti finali, che sembra porre il movimento craft tre passi avanti rispetto al suo omologo enoico in termini di consapevolezza e coraggio. Mi pare basti questo per aprire un tavolo permanente di confronto: no, il vino italiano non se lo può proprio più permettere, di ignorare o trattare con sufficienza il lavoro di “quelli delle ricette”.
crediti foto di apertura: facciadamalto.it
Rassegna Web
AB Inbev acquista Birra del Borgo: ecco perché non è una notizia “normale”
Le parole di Greg Koch come chiave di lettura del caso Birra del Borgo
Birra del Borgo vende al colosso Ab-Inbev: parla Leonardo di Vincenzo
Birra del Borgo acquistata dallo stesso gruppo di Beck’s e Bud
Birra del Borgo tra artigianalità, indipendenza, vini naturali
http://www.gamberorosso.it/it/food/1024496-il-caso-birra-del-borgo-ab-inbev-videointervista-a-jean-hummler-di-moeder-lambic
http://www.gamberorosso.it/it/news/1024478