A prescindere dalle considerazioni “finali” sul senso di Expo 2015 (link), non occorreva la kermesse milanese per fare mente locale sui continui ribaltamenti di prospettiva che animano l’universo food contemporaneo.
Sono almeno trent’anni che il comparto agroalimentare, inteso in tutte le sue ramificazioni produttive ed imprenditoriali, sceglie di raccontarsi preferibilmente attraverso la logica del format. La ristorazione fast e la nouvelle cuisine, tradizione e innovazione, industria e artigianato, standardizzazione e creazione artistica: se il cibo diventa qualcosa da pensare e guardare ancor prima che da mangiare, come si ragionava nel post richiamato, è inevitabile che tutto passi attraverso una precisa rappresentazione, impacchettata e pronta all’uso.
Tra le più recenti tendenze di successo, almeno sotto il profilo mediatico, possiamo sicuramente prendere ad esempio quella relativa al cosiddetto street food. Laboratori, manifestazioni, menù, trasmissioni televisive, nuove aperture e riconversioni di vecchi locali, chioschi, lambrette e camioncini trasformati in gastro-truck, negli ultimi anni è stato tutto un fiorire di progetti dichiaratamente ispirati alla cucina di strada. Ma con un sostanziale rovesciamento concettuale: nel momento in cui si struttura come “format”, lo street food si allontana a rapidissimi passi dalla sua innegabile origine popolare per diventare qualcosa di completamente diverso.
Non necessariamente nella forma, perché in diversi casi c’è uno sforzo quasi filologico nella ricerca di vecchie ricette e tradizioni. Ma sicuramente nel tipo di pubblico a cui parla: i mangiari “di” e “per” strada non hanno quasi più nulla a che fare con le necessità che li hanno generati e a lungo sostenuti. Sembra quasi assurdo doverlo sottolineare, eppure per molti gourmet è spesso una sorpresa scoprire che i vari lampredotti e pani co ‘a meusa, i timballi e le pizze a portafoglio nascono come cibo povero per poveri. Materie prime tutt’altro che nobili, a volte veri e propri scarti ed ingredienti di risulta, consumati nei quartieri proletari da chi realmente era costretto a racimolare una moneta dietro l’altra per concedersi un pasto.
Radici che si conservano qua e là abbastanza intatte, ma sempre più ibridate su larga scala da quella che vuole essere prima di tutto una “formula” di moderna offerta culinaria. Che non a caso incontra favore trasversale in svariati pezzi di società, dallo studente al colletto bianco, dall’operaio al professionista, dall’impiegato precario al gastrofanatico. Al di là delle contingenze modaiole, l’opzione street food piace perché è di fruizione facile, veloce, rilassata, golosa, legata a sapori che per i più giovani sono stimoli nuovi, altro che memoria del passato. E una costruzione di questo tipo ha a che fare fino ad un certo punto col rapporto qualità-prezzo, anzi, dato che in alcune varianti si tratta di proposte non certo low cost o comunque quotidianamente accessibili.
Mi ritornano in mente un po’ di discussioni orecchiate nel corso di una manifestazione a tema svoltasi a metà settembre ad Avellino, la mia città, lungo il corso principale. Irpinia Streat Mood (link), prima edizione di una rassegna che ha visto i migliori chef della provincia (e alcuni prestigiosi ospiti provenienti da fuori regione) cimentarsi con le materie prime del paniere locale, interpretate in chiave street food, appunto. Organizzata e comunicata bene, ha riscosso un successo superiore a qualunque aspettativa: i circa 500 assaggi preparati da ogni stand (una decina per sera, più i ristoranti) si sono rivelati presto insufficienti per accontentare le migliaia di persone giunte nel capoluogo da ogni dove. Con relative lunghe code, che come dicevo mi hanno dato modo di guardarmi attorno, captare qualche feedback, abbozzare una sorta di profilo dell’utente medio come me in paziente (più o meno) attesa.
In primo luogo mi ha colpito la festosa mobilitazione degli irpini, non tanto e non solo quelli di città. E pensavo tra me e me: chissà perché questa gente è in fila qui con me per pizzilli e crocchette, mentre fondamentalmente ignora proposte simili di osterie e locande a tre metri da casa propria. Torna di nuovo in primo piano l’importanza della “presentazione”: forse è semplicemente più divertente addentare una buona polpetta in un luogo altro rispetto alla classica sala di ristorante, come forse c’è un valore aggiunto riconosciuto all’essere parte di un’esperienza collettiva.
C’è poi un secondo livello da considerare e riguarda la relativa saltuarietà di fruizione per appuntamenti di questo tipo. La folla, lo sappiamo senza scomodare Le Bon (link), ha sempre una sua specifica narrazione, un suo linguaggio, un suo “spirito guida” che aleggia, costantemente in bilico tra comicità e tensioni, spiritosaggini e contatti fisici, allegra caciara e discussioni. «Marì, iammoc’a magnà ‘na pizza, ca qua ammo speso già quaranta euro e tengo ‘na sfaccimma ‘e famm’ *»: a un certo punto era diventato un tormentone, ripetuto a nastro da tanti compagni di fila. Sono uno di quelli convinti che nel cazzeggio privo di filtri si nasconda un tunnel preferenziale di accesso alla verità e credo che questi piccoli flash raccontino molto più di quanto si creda. Per la serie: bello lo street food, divertente lo street food, ma se siamo una famiglia di quattro persone, quante volte ci possiamo permettere di spendere cento euro a sera per sfamarci con panzerotti e uovo di Parisi nel bicchiere?
E’ evidente che nei cinque euro richiesti per ciascun assaggio a Irpinia Streat Mood non era calcolato solo il costo della materia prima e della sua lavorazione, ma di tutto ciò che serve per organizzare una manifestazione ben riuscita. Gli allestimenti, la promozione, la qualità dei servizi, e così via. Ma, appunto, bisogna essere disposti a pagarlo tutto questo, accettando definitivamente l’idea che le pizze fritte di Sofia Loren a Rione Sanità vanno bene per l’iconografia, mentre il mondo sta andando definitivamente da un’altra parte.
* Maria, trasferiamoci in pizzeria, poiché si sono volatilizzate 80.000 delle vecchie lire in mangiari di strada e io conservo ancora un certo appetito
Crediti foto di aperture: stile.it