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Cosa resta di Expo: cibo da mangiare, cibo da pensare

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Il successo dell’Expo di Milano 2015 invita a riflettere. Perché non si può negare che di trionfo si sia trattato, quantomeno dal punto di vista degli ingressi e delle presenze, specialmente da agosto in poi (link).

Io non ci sono stato, pur avendone la possibilità, e devo dire che a cancelli chiusi un po’ me ne pento. Da una parte resto totalmente convinto dell’opportunità di disertare una fiera dai contenuti poco più che virtuali, solo incidentalmente in linea con quello che doveva dare senso al tutto e si è rivelato nient’altro che uno slogan. A nutrire il pianeta ci penseremo in data da destinarsi, suvvia, e una volta preso atto del giochino, la scelta di fare o meno da megafono all’evento in qualsiasi forma diventava una questione totalmente personale. D’altro canto valeva forse la pena di indagare sul campo i motivi che hanno spinto così tante persone a mettersi in coda per ore intere, magari per esplorare anche un solo padiglione della mega area di Rho. Non si può discutere, insomma, l’enorme valore oserei dire antropologico connesso al racconto di questa, e di altre, esposizioni universali, che merita più di una riflessione.
Ho chiesto ai tanti amici che hanno visitato l’Expo 2015 cosa li ha convinti ad investirci un budget significativo già in partenza, tra viaggio e biglietto. Un mezzo stipendio da impiegato statale, in soldoni, per chi poi si è mosso con famiglia al seguito. Le risposte sono state molto diverse tra loro, ma la sorpresa per quanto mi riguarda risalta nel tipo di spiegazione che NON ho avuto. Praticamente da nessuno ho sentito la frase: «Paolo, ci siamo andati per assaggiare questo o quello». Non hanno certo digiunato una volta lì, ci mancherebbe, ma la molla principale nasceva dal desiderio di “partecipare” ad un qualcosa percepito come unico e in qualche modo irripetibile. Prima guardare e poi eventualmente colazionare, pranzare, merendare, cenare; immergersi in un’experience multisensoriale (come dicono quelli fighi) più che godere con coltello e forchetta. Forzando ma non troppo, per molti è stato come regalarsi una giornata al Louvre o a Disneyland, non – per intenderci – al Salone del Gusto.

crediti foto: Cosmopolitan.it
crediti foto: Cosmopolitan.it

Io credo che in questa piccola istruttoria ci sia un dato molto chiaro, che non può non stimolarci, come professionisti ed appassionati. Nella civiltà occidentale il cibo è sempre più qualcosa da “pensare” e sempre meno da mangiare. O meglio: il potersi nutrire giornalmente (e spesso in abbondanza) è considerato un fatto talmente scontato da generare bisogni di natura profondamente diversa. Che hanno molto più a che fare con l’estetica, la semiotica, la sfera emotiva e cognitiva, l’appartenenza socio-culturale, e solo marginalmente con la sua funzione di carburante primario, senza il quale l’uomo-donna non sopravvive. Materie prime, prodotti, piatti finiscono quasi per distaccarsi dalla propria origine “fisica” per diventare qualcosa di altro, dotato di vita propria e soggetto alle più complesse dinamiche di fruizione. La mobilitazione popolare innescata da Expo conferma una volta di più che nei paesi ricchi la rappresentazione-confezione dell’universo cibo ha una centralità quantomeno pari al cibo stesso, inteso nella sua essenza materiale.
Ecco perché “nutrire il pianeta” non poteva in nessun modo candidarsi ad obiettivo reale. Non esiste chance di comprensione reciproca – schematizzando – tra un mondo che può permettersi di sfamare necessità per molti versi indipendenti da quelle dello stomaco, e un altro che fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. Tutti i giorni, da anni, da secoli. Distanze che si acuiscono esponenzialmente, oltretutto, perché il surplus produttivo e di consumo dell’Occidente solo in rare occasioni si rende disponibile al sostegno dei paesi in via di sviluppo, se non come scarto. Ma soprattutto per lo squilibrio di forze determinato da nuovi e continui processi di colonizzazione, con effetti non meno cruenti di quelli che segnarono le prime espansioni europee nei vari continenti.
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Il corto circuito è tutto qui. Una piccola percentuale degli abitanti del pianeta possiede la stragrande maggioranza delle sue risorse alimentari ed idriche, e non ha alcun interesse a metterle a disposizione di chiunque. Al contrario: è mille volte più conveniente offrirle a chi può accollarsi il prezzo degli infiniti passaggi sulla filiera, quelli che di fatto generano valore finanziario. Ma non ingannino le dinamiche virtuali di cifre e conti: la terra non è mai stata tanto preziosa come in questo momento, perché chi controlla le materie prime alla fonte nel lungo periodo detiene il vero potere. A maggior ragione se consideriamo che è praticamente impossibile prevedere come saranno in grado di coabitare (e mangiare) dieci e più miliardi di persone. Senza una radicale rivoluzione politica ed economica, non potranno che aumentare i pezzi di mondo deputati a produrre beni agricoli poi trasformati e soprattutto consumati da un’altra parte. Né più né meno quel che accadeva con le vie delle spezie o dell’oro in età moderna, solo che in questo caso le pepite sono cereali, ortaggi, verdure. Oppure, ad un livello più evoluto, i Borgogna, i Bordeaux, i Barolo, i Brunello, e compagnia, che si stapperanno sempre meno in prossimità dei luoghi di origine e sempre più dopo almeno un volo transoceanico.
Forse non ce ne rendiamo conto, ma c’è un comune destino di assoggettamento che lega i territori oggi descritti come ricchi e avanzati, con quelli che ancora conoscono il significato della parola carestia. Personalmente non credo che sia necessariamente un male: solo con la consapevolezza di un depauperamento vissuto sulla propria pelle, si può davvero immaginare almeno l’inizio di un percorso di riequilibrio e sostenibilità globale. Si vive anche senza Barolo e Brunello, siamo tutti d’accordo, ma forse è un po’ più complicato senza grano, olio, proteine nobili e tutto ciò che potrebbe perdere da un momento all’altro la sua dimensione accessibile e popolare, per diventare bene di lusso. Non me lo sto augurando, sia chiaro, ma poi penso al vecchio adagio e alla formidabile efficacia condensata in sei parole: “il sazio non crede al digiuno”. Ce n’è una versione per ogni dialetto, ma la sostanza è sempre quella e tutto sommato l’Expo in archivio può aiutarci a ricordarlo.
Crediti foto di apertura: blog.urbanfile.org

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