Tarlant Brut Nature | O delle vie della sete


«Pure Monica Bellucci dopo una settimana che ce l’hai sempre davanti diventa la Mazzamauro» (2002, P.A.)

Non lo vedo da un po’ il mio amico Pasquale, detto “palo ‘e fierro”, soprannome assegnatogli in gioventù per motivi che non mi sembra il caso di illustrare.

La sua fama lo precedeva, non solo per le ragioni sintetizzate nel nickname, ma anche e soprattutto per la capacità di condensare ragionamenti filosofici di ore in brevi frasi, con un efficacia da fare invidia a Oscar Wilde.
Quella che apre l’ennesimo inutile post non è la migliore delle sue perle, ma mi è tornata in testa l’altra sera all’improvviso, mentre spremevo le ultime gocce rimaste nella bottiglia del Brut Nature di Tarlant, sboccatura 2013. Chiedendomi come mai negli ultimi 3-4 anni si fossero così ridotti i miei consumi di Champagne, al di là della congiuntura finanziaria. E pensare che fino a poco tempo prima quasi metà delle stappature casalinghe prevedevano la rimozione di una gabbietta e di un sughero a forma di fungo.
Complici le annuali scorribande con gli amici, inaugurate nel 2004, le scorte in cantina venivano continuamente rimpinguate, sfruttando prima di tutto le possibilità di recuperare in loco ottimi Champagne, specie di Récoltant Manipulant, a prezzi non certo proibitivi.
Come limitare gli acquisti a meno di una cassa, del resto, quando ti finisce sotto il naso una bella cuvée da 15-20 euro (Voirin-Jumel e Gatinois ci hanno mandato i figli a scuola con i nostri bonifici), perché rinunciare ad un millesimato di livello tipo Moncuit ’96, se il listino dice euro 25. Antonio vi ha già raccontato in altre occasioni della casa di Chouilly*, di cui possiamo legittimamente considerarci comproprietari, un giorno magari vi dirà di quella volta che la polizia ci fermò tra Piemonte e Liguria, arciconvinta che stessimo trasportando immigrati clandestini stipati nel bagagliaio, tanto il furgone pendeva sulla ruote posteriori.
Era diventata una malattia, diciamo la verità, o quanto meno una aggressiva forma di dipendenza. Un po’ si viveva al di sopra delle nostre possibilità, onestamente, un po’ ci sembrava inconcepibile fare due passi senza una boccia di Champagne a portata di mano. Era talmente sbilanciato in cantina il rapporto con le altre tipologie “ferme”, che diventava soluzione scontata anche nelle occasioni di ritrovo più ampie, per esempio in cene con amici non così interessati al vino. Ne stappavo proprio tante, se non si fosse capito, con effetti sulla mia cerchia di conoscenze al limite del grottesco e del tragicomico.
Ancora oggi non riesco a smettere di ridere per un episodio capitatomi una sera che avevo invitato a casa un gruppo di amici per una “cena brasiliana”. Alcuni di loro li avevo conosciuti da poche settimane, ad un corso per imparare a ballare la tammurriata (niente commenti, per favore). Sorvolando sugli imprevisti delle preparazioni, a cominciare dalle errate dosi per la fejoada (i miei genitori si sfamarono per 11 mesi con quella avanzata), anche quella volta mi sembrò normale prevedere le bollicine francesi come unico abbinamento. Era una serata molto divertente, ma non potevo fare a meno di notare un certo disagio tra i compagni di conoscenza più recente. La cucina magari non è il mio forte, ma il cibo mi sembrava almeno commestibile, anche grazie ad un souschef di eccezione (ma notoriamente allo sbando) e pure il beveraggio non pareva male. Finché a un certo punto e a un punto certo, tra un pezzo di Nina Simone e un inizio di Buena Vista Social Club, la leader degli “imbarazzati” irrompeva ad alta voce: «Senti una cosa, Paolo». «Dimmi, E
Lei parlò, un minuto che sembrò un’ora in canottiera a temperature polari, prima dell’esplosione liberatoria di una fragorosa risata complice e collettiva. Italianizzo il passaggio chiave: «Paolo, ti dico la verità, noi avevamo fatto brutti pensieri. Ci conosciamo da nemmeno un mese, tu ci inviti a casa tua, prepari tutte queste cose da mangiare, ci stappi lo Champagne: sinceramente pensavamo che come minimo ci volevi vendere qualcosa. Che ne so, tipo una dimostrazione del Bimby o del Folletto. Nel migliore dei casi».
Ne stappavo di bottiglie, se non si fosse capito, quando all’improvviso successe fondamentalmente quello che teorizzava l’amico Pasquale. Per una concatenazione di cause, credo. Da una parte sembrava non si parlasse d’altro che di Champagne: ad Epernay incontravo più gente da me conosciuta che a casa mia, due post su tre erano dedicati a Cote de Blanc e Montagne di Reims e il numero degli importatori diretti di RP stava superando quello dei tifosi juventini in era Conte. Non aiutava nemmeno la previsione di una lenta ma graduale salita dei prezzi, ma molto più semplicemente era calato il desiderio – dalla sera alla mattina – e quello che mi innamorava sembrava ora più scontato, né mi divertiva o stimolava più come prima.
Naturalmente sono meccanismi che hanno a che fare solo in parte con le cose vinose e si intersecano in maniera decisiva con quelle della vita, i percorsi, gli stati d’animo, i sentimenti. C’entra la lotta con la noia, ma è un rapporto coi sensi che si scrive e riscrive ogni giorno, come nel tempo che somma le quotidianità. Lo Champagne non annoia mai, a patto che tu sia in grado di ricavarti sempre uno spazio di leggerezza e spensieratezza. Non c’è da pensare davanti ad un Blanc de Blanc degno di questo nome, non sono sinapsi da attivare quelle che puoi chiedere ad un Grand Cru di Ay. E’ il tasto pausa schiacciato sul dvd della tua esistenza, un momento che si ferma senza memoria di ieri e profilo di domani, un posto dove consolazione non fa necessariamente rima con speranza.


Chiedo scusa alla brava attrice che interpretava la signorina Silvani nella saga di Fantozzi, alcuni tormentoni sono ingiusti e non c’è nessuna intenzione di mancare di rispetto alla persona e alla donna. Ma, riprendendo il Pasquale pensiero, ci sono giorni in cui funziona proprio così, la Bellucci diventa la Mazzamauro. Ed è forse inutile chiedersi perché accada: è talmente umano, fisiologico, inevitabile, che possiamo solo ripensarci a posteriori, senza rimpianti, per capire qualcosa in più di noi.
Per fortuna non è un processo irreversibile e la stessa facilità che ci allontana da cose e persone, può riavvicinarci quando meno te lo aspetti come e più di prima. Dalla sera alla mattina i tuoi occhi tornano a vedere la Bellucci oppure si rendono conto che, guardando con attenzione, una Mazzamauro può essere ancora insospettabilmente più bella.
La bottiglia giusta al momento giusto. Sono sempre più convinto che trascuriamo troppo questo aspetto. Il Brut Nature di Tarlant è molto buono, ma credo che tra qualche anno non lo ricorderò tanto per la viscerale prorompenza e la scalpitante sapidità, quanto per la sua capacità di rinverdire un certo tipo di sete. Solo in minima parte alcolica.

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