Negli ultimi giorni ho parlato un sacco di ristorazione, di cuochi e di cucina. La sensazione è quella di vivere una fase di passaggio tra ere ben distinte, con cambiamenti dati dalle difficoltà economiche, certo, ma soprattutto dai mutamenti sociali, che incidono sulle abitudini e i comportamenti della gente più della mancanza di quattrini.
Non serve sottolineare quello che sta accadendo, le fortune di un tipo di ristorazione snella, capace di riportare sulla scena il cibo di strada o di interpretare i classici del junk food in versione gourmet, piuttosto che il grande ritorno delle osterie, della solida cucina della tradizione (o della neo-tradizione), della bistronomia. Tanto per dire.
Spendere meno, spendere meglio. Voglia di formule più flessibili e dinamiche, di semplicità e immediatezza, senza troppi orpelli o formalismi.
Tutto qui, dunque? La così detta alta cucina, la creatività, il servizio di livello, i piccoli e grandi lussi della tavola sono destinati a sparire? Ovviamente no, però il campo per questo tipo di locale si sta restringendo parecchio. Almeno in Italia.
Si va meno al ristorante, specie in quelli “importanti”, dunque le scelte sono sempre più ponderate e la selezione durissima. Insomma, il grande ristorante deve essere grande veramente altrimenti si sceglie altro per non sprecare il bonus. E questo è il punto: i geni in giro non mancano ma forse non sono così tanti come si dice. Ragionamento che vale sputato anche per il vino.
E allora i distinguo sono importanti e la notte dove tutte le vacche sono nere è finita. Chi saprà raccontare le cose come stanno avrà un futuro e servirà una causa. Gli altri vivacchieranno ancora un po’ fino a spegnersi. Senza troppi rimpianti né clamori.