Jean Trapet è un nome che mi viene in mente se ho voglia di Chambertin


Non ricordo il posto, né il nome della ragazza, ma il vino era uno Chambertin”.  Lo scrittore Hilaire Belloc, raccontando da par suo un aneddoto di gioventù, ha certamente contribuito alla meritatissima fama del Grand Cru più celebre di Gevrey e si inserisce di diritto tra i responsabili della mia pessima situazione economica.

Fin dai primi passi dell’inconsapevole girovagare per la Côte d’Or, alla ricerca di una verità che fosse quanto più personale possibile, la sosta in quel climat è stata praticamente obbligata, avendo individuato nei suoi vini una specie di quadratura del cerchio, la scatola magica in grado di contenere l’inafferrabile eleganza dei rossi della regione unita a quel saldo di polpa e materia capace di traghettarla in lungo e in largo per lo spazio-tempo.
Vini anima e corpo, se così si può dire, certamente complessi, immediatamente comprensibili eppure ricchi di dettagli, specie dopo la giusta sosta in bottiglia. Un moto quasi rabdomantico, coi limiti del portafogli e un pizzico di fiuto al posto del legno biforcuto, che ha presto condotto la ciurma di cui mi onoro di appartenere davanti al cancello del Domaine Trapet*, al numero 53 della Route de Beaune. La storia della cantina è piuttosto lunga ma la svolta recente arriva nei primi anni Novanta, quando Jean Louis comincia ad affiancare il padre nella gestione aziendale, traghettando la gestione delle vigne verso il biologico (prima) e la biodinamica (a partire dal 1995).
A chi liquida frettolosamente certi metodi agricoli, senza tener conto di niente altro, a partire da lavoro in cantina e tecniche di vinificazione, consiglio di assaggiare uno qualsiasi dei rossi di Trapet, a mio parere capaci di racchiudere la quintessenza dei Cru di riferimento, estremamente rigorosi, puliti, direi quasi cristallini. Dal semplice Gevrey Village alla Cuvée Osrtea, dal Clos Prieur ai Grand Cru Chapelle, Latricieres e, appunto, Chambertin.
Un filotto meraviglioso, chiuso dal re dei vini del comune che, fin dal primo sorso della prima volta ci apparve imperdibile. E tutto sommato alla portata. Una decina d’anni fa, uno Chambertin di Trapet si portava via dalla cantina a 70 euro; dunque, rinunciando ad un paio di scarpe due bottiglie finivano dritte dritte a casa tua. Oggi le cose sono cambiate parecchio. Questo Domaine non è più una bella promessa ma uno dei più importanti della Côte. I suoi vini sono un baluardo di purezza e identità, territoriale e stilistica, la cui fama è cresciuta di pari passo ai prezzi, praticamente raddoppiati dalle nostre prime visite.
Tant’è, mi consolo con quel che ho in cantina, da cui sono stati appena sottratti un Gevrey Village 2005 e uno Chambertin 2004. Il primo, figlio di una grande annata, appare ancora giovanissimo, tutto incentrato su deliziosi frutti rossi maturi, appaganti ma ancora poco sfumati, al naso quanto in una bocca di ottima pienezza ma un tantino monolitica. Se ne avete una bottiglia aspettate a stapparla, è ancora presto.
Di tutt’altro segno lo Chambertin 2004. Annata opposta, notoriamente problematica e avara di buoni rossi. La mano del grande produttore si vede anche per questo e infatti il vino è tutt’altro che dimesso. Anche se non raggiunge i livelli dei migliori millesimi, regala piacevolezza assoluta e un fascino decadente che può rapire. Ha profumi decisamente terrosi, di humus e foglie secche che avvolgono un frutto piuttosto timido ma seducente. La bocca è snella ma affatto rustica, soprattutto mai imprecisa sul piano tannico né amara o vegetale nel finale. Non un mostro di complessità, né un vino che lascia immaginare chissà quale potenziale di invecchiamento, però berlo ora è stato un piacere, oltre che una conferma della costanza, dello stile e della grazia di una delle cantine che preferisco in tutta la Côte d’Or.

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