
Nonostante la media di 87° C all’ombra, per quanto mi riguarda non è l’estate della biretta, della classica bionda ghiacciata o di certa “acqua colorata” con le bolle. Nossignore.
Cominciata con una bella degustazione di birre artigianali italiane che in qualche modo incontrano il mondo del vino (dall’affinamento in barrique all’utilizzo di mosti, uve ecc…), per un articolo uscito sul Gambero Rosso di Agosto*, la bella stagione ha conosciuto un crescendo di emozioni brassicole, portando con sé stili ed espressioni originali, spesso inconsueti, a volte decisamente “invernali”.
Tra le serate da ricordare, in attesa di nuove avventure, piazzo sul podio il ritorno nella tana di Silvo, in quel di Chiusi (piazza XX Settembre, 18). Chi è Silvo? Se vivete nell’Area Nielsen 3 (Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Sardegna) e volete passare per appassionati del settore, questa è una domanda da evitare (vabbè, i sardi sono giustificati).
Comunque, Silvo è il patron della Brasserie Leffe. Un tipo buffo, con la voce da strega delle favole e le sembianze di un folletto del bosco, ma soprattutto uno dei grandi conoscitori italiani del mondo birraio mondiale, al timone di un locale che è una riserva inesauribile di esperienze. Da tempi non sospetti…
Il racconto della serata comincia dalla fine, ben oltre la mezzanotte, e in particolare dall’apparizione quasi magica di una champagnotta polverosa, sbucata da chissà dove. L’etichetta recita Cantillon Saint Lamvinus, anno di produzione 1999 (confermato dal lotto di imbottigliamento).
Una birra del paese della birra che simboleggia “il legame tra due culture”, riassunto dal mélange tra uve di Bordeaux e Lambic di Bruxelles.
E’ fatta a grandi linee così: gli acini di merlot e cabernet franc macerano per lunghi mesi in barrique, a contatto con la birra, che di seguito viene fatta rifermentare in bottiglia. Il tutto in maniera spontanea, con i soli lieviti naturali.
Il risultato, a 13 anni dalla faccenda, è pazzesco. I profumi raccontano storie emozionanti che mettono il lavoro dei lieviti in primo piano, senza mai rinunciare alla complessità e alla bellezza di mille altre componenti che ti rapiscono, istante dopo istante. Ci sono la rosa e i fiori appassiti, il cuoio lavorato, la lavanda, un tocco di ciliegie sotto spirito, la terra bagnata e un’inezia di goudron. La componente vinosa è evidente, quasi primeggia al naso, ma la bocca rimanda inequivocabilmente alla grande tradizione Lambic.
L’acidità è spaventosa, ancora tagliente, quasi “spaccagengive”, e conduce tutte le sensazioni del sorso in un finale interminabile e salivifero. Una grandissima birra, ammesso che sia una birra, ma soprattutto un incredibile esempio di connubio tra tradizioni diverse che, per una volta, fanno l’amore e non la guerra.