Qualcuno di voi già conosce quel losco figuro apparso su questi schermi col nome di Raffaele Del Franco. Molti meno, però, sono coloro che possono dire di sapere davvero chi è Lello.
Già, perché lui è preliminarmente e inevitabilmente Lello, uno dei più insondabili misteri generati dalla terra irpina, vero e proprio rebus epistemologico di impossibile risoluzione. Sulla sua pagina wikipedia leggerete:
– classe ’71, secondogenito di Emilia e chef Pietro, splendide persone che potete incontrare tutti i giorni tranne il mercoledì nel loro bar, Al Cielo Azzurro, ad Aiello del Sabato
– fratello di Tonino, tra le tante cose ex presidente dell’Ais Campania
– colonna dei principali eventi di promozione enoterritoriale organizzati nell’ultimo decennio in Irpinia: in tutti i sensi, fatevi una chiacchierata con la sua schiena evitando di nominare per pietà le frasi “scale del castello di Taurasi”, “60 cartoni di vino e tavoli da portare al secondo piano” e “nuovo sistema di valutazione”
– estimatore delle macchine Toyota, specialmente i modelli station wagon che possono contenere più cartoni, più sputacchiere, più scale e tavoli
– il più grande ordinatore e consumatore europeo di sacchetti di stoffa mimetizza-bottiglie
– glorioso passato da portiere calcistico, non sufficiente a dissuaderlo dal voler per forza giocare a centrocampo nelle partite contro i produttori, rischiando il linciaggio da capitan Jean Paul
– membro emerito del primo master in Marketing del Vino organizzato dall’Università di Siena, dove incontrò sulla sua strada l’Ascione nazionale, rimanendone segnato per sempre
– detentore del record di partecipazione a concerti di Ligabue, Springsteen e U2, Honolulu compreso
– cintura nera di spazzolamento gorgonzola, conferitagli da Cinzia Travaglini dopo una pausa pranzo dell’ottobre 2009: mezzo chilo di “compatto naturale” sparito dalla tavola nel tempo di uno splendido Gattinara ‘05
– attore teatrale, omaggiato dallo Zia Lidia Social Club al completo per la sua interpretazione de Il Superdotato; spalla attoriale del grande Roberto “Scagnozzo” Galluccio nell’annuale appuntamento de La Gran Ridanza e la gran Piangianza, uno dei due eventi clou dell’agosto aiellese, insieme alla serata musicale Aglianico & Pop Corn (Bar Al Cielo Azzurro, non mancate alle edizioni 2012)
– nome in codice “ManelLello”, simpatico nickname conquistato e conservato orgogliosamente per due quadrienni olimpici grazie ad una serie di bottiglie tipo “sciascinoso frizzante” da lui portate in serate che vedevano i compagni di tavolo armati di Obrionni, Monfortini e Krugghi. Inconsapevole ispiratore del passo del nostro manifesto che recita: “non ci piacciono quelli che se lo sapevo portavo uno Chambertin”…
Purtroppo ci toccherà aggiornare la pagina su quest’ultimo punto. Dopo ieri sera, infatti, il tormentone manellelliano si ritrova improvvisamente sguarnito: con balzo felino e dribbling secco, il nuovo Lello entra negli anta scrollandosi di dosso il vecchio e regalandoci una serata indimenticabile, non solo per gli splendidi vini condivisi. Buon Compleanno Lello, ti vogliamo bene. E anche per questo non riporto tutte le battute connesse, tanto da farci una pagina intera di spinoza, tipo “allora per ribere bene dobbiamo aspettare gli 80 anni“, oppure “ah, allora hai capito che non ti rimane più tanto tempo…” (John Cushler copiright)
Quaranta di questi Lelli
Giusto il tempo di scaldare i motori con un giro di ricognizione dietro la safety car–Gatinois Tradition Brut (mica me lo ricordavo così ramato…) e si comincia: Lellissimo aveva preparato cinque coppie che abbiamo affrontato come al solito alla cieca. Eccole qui:
1° batteria: Saint-Emilion Figeac ’08 Vs Pauillac Pichon Longueville Comtesse de Lalande
E’ l’unica batteria in cui il nostro ha rischiato di scontare oltre il dovuto il pregiudizio-tormentone, altrove ricordato col titolo “Fenocchio ‘99”. Complice la nostra scarsissima esperienza su vini del genere affrontati così giovani, già si era messa in moto una sequela di commenti e previsioni, la più benevola delle quali suonava più o meno così: “vabbuò, ammo capito, stasera ci tocca un’orizzontale di merlot maremmani in appassimento“… E’ soprattutto Figeac a depistare più del dovuto: tanta dolcezza, tanto legno da sistemare, una bella strisciata finale percepita quasi da tutti come più che amarognola, ma se la Verde si sbilancia con un 18/20 forse vale la pena concedergli una chance più in là (e sinceri complimenti a chi riesce a leggere in prospettiva un vino con tanta apparenza di normalità e, oserei, banalità). Più serio e più “francese” sembra invece il Comtesse de Lalande: bel talco, promesse di sigaro e goudron, ma anche qui il rovere non è una presenza secondaria. L’unico “errore” del padrone di casa: sarebbe stato meglio assaggiare i rispettivi ’89…
2° batteria: Clos Vougeot ’06 Chateau de la Tour Vs Richebourg ’05 Gros F. e S.
La prima svolta della serata: quel colorino tutta luce di ribes e menta del bicchiere a sinistra ci porta a pensare che forse forse Lellosimo non vuole usarci come cavie questa volta… Una meraviglia: come sottolinea giustamente Nonno Nanni Com’è, lì dentro c’è l’immagine esatta della Borgogna che leggi nei manuali e nei racconti. Seta e classe pura: non si sbaglia più di tanto pensando a Vosne, ma se praticassimo più spesso questa azienda, come meriterebbe, al Clos Vougeot di Chateau de la Tour ci arriveremmo con facilità. Decisamente NON in chiusura. Più impervio è il percorso che conduce al Richebourg: confesso cospargendomi il capo di cenere di aver sparato addirittura Italia ed Etna. Se il Magister consiglia di non mettersi a giocare con i grand cru 2005 un motivo ci sarà: fatto sta che è assai più compresso, il legno (o qualcosa che gli somiglia) crea un effetto schiacciamento che nemmeno la bocca sbroglia completamente. Per quel poco che ho bevuto, al cru ci si poteva arrivare per il profilo piuttosto rude, maschio, potente, e al produttore per un tono rustico nell’estrazione tannica che avevo trovato anche su altri suoi (loro) vini meno giovani.
3° batteria: Don Anselmo ’94 Vs Taurasi ’87 Mastroberardino
Stop all’enopedofilia, è il momento dei maggiorenni. O quasi, nel caso di un Don Anselmo ’94 forse non nella sua bottiglia migliore (rispetto a quelle testate in questi ultimi due anni) ma comunque ad alti livelli, specialmente quando i meno ansiosi e frettolosi (sì, 4-4-2 mascherato, sto parlando con te) gli danno il tempo di tirar fuori il pregevole tratto di fiori, radici e frutto chiaro, amplificato da una bocca ancora giovanissima. Non può invece nulla la pazienza sulla boccia sfortunata dell’87 mastroberardiniano: non è ossidato ma resta inespressivo e polveroso, in ultima analisi ingiudicabile. Era la prima volta che mi trovavo di fronte questo Taurasi non riserva con etichetta bianca, a questo punto una delle tre versioni uscite in quel millesimo: in precedenza mi ero imbattuto in un magnifico Radici Etichetta Nera ’87 e, un gradino sotto, nell’austero Taurasi Riserva ’87 (anche questo con etichetta bianca).
Dato il piccolo impasse, Mr Marmalade decide che va stappato qui uno dei jolly a sorpresa della serata: nocino di quelli buoni, tante cose da raccontare, acidità feroce che sembra generare scosse elettriche, si fanno ipotesi importanti per rimanere come scemi davanti ad un semplice, insospettabile, strabiliante Hirpinia ’71 di Mastroberardino. Mi capite quando dico che, potenzialità alla mano, l’aglianico è un vitigno straordinario e che nella mia memoria non ne ho mai trovato uno palesemente ossidato, di qualunque annata e qualunque fattura? Stiamo parlando di un vino probabilmente pensato per andare in commercio prima possibile e tirato in decine di migliaia di esemplari, non della micro riserva per maniaci. Ne vogliamo discutere?
4° batteria: Chianti Classico Ris. ’85 Castell’in Villa Vs Brunello di Montalcino Ris. ’85 Biondi Santi
Preceduta da qualcuno (indovinate chi?) che grida: “Vabbuò, ammo capito: ti sì giocato i calibri pesanti all’inizio e mò inizia lo svuota cantina“. Col cavolo, per non dire un’altra cosa. Perché nel primo bicchiere si materializza la Riserva ’85 di Castell’in Villa: dopo tanto peregrinare (leggi un quasi cartone di bocce tricloroanisoliche, inesistenti per la simpatica principessa, censura censura censura), per la seconda volta si rivela uno dei più grandi vini italici della mia vita e tranquillamente sul podio degli ’85. Sangiovese assoluto, di profondità e sostanza, sapore e contrasto: Lellazzo, puoi tranquillamente pensarlo già nella line up dei tuoi 50 anni. Ha bisogno di più tempo, ma è come scrivere che l’acqua è bagnata, la Riserva ’85 di Biondi Santi: colpa o merito, a seconda dei punti di vista, di un’acidità affrontabile solo con siero-antidoto, che lo fa apparire più “scisso” e meno completo rispetto al fratello di vitigno. Dopo la mezzanotte, però, è ancora lì a macinare chilometri e a dirmi: caro Paolo, vengo a lasciare un fiore sulla tua tomba, non preoccuparti…
5° batteria: Falletto Et. Rossa ’85 Giacosa Vs Collina Rionda ’85 Giacosa
C’è un’espressione da noi che recita (la italianizzo) “si è voluto togliere gli schiaffi da faccia”. Ebbene sì: gli mancava solo l’accento romagnolo, la maserati biturbo e i dollari al posto dell’accendino perché Lellocchio ci apparisse definitivamente come un viveur felliniano nel suo momento di massima sboronaggine. Diciamo che se lo poteva permettere con questa coppietta, riconosciuta giacosiana in un lampo, che ci ha chiamato a decidere (credo che il nostro lavoro quotidiano dovrebbe essere questo in un mondo giusto) tra la luccicante eleganza del Falletto vestito di rosso e la più nettamente serralunghiana presenza di bocca del Collina di Rionda pari annata. Ah, signora mia, che problemi al giorno d’oggi (vdm, avrebbe detto qualcun altro). Per me vince il primo, vino della serata con Castell’in Villa, per la migliore definizione aromatica (di gran lunga il miglior naso fra i non tanti nebbioli ’85 assaggiati, Monfortino compreso) e per l’imbarazzante satinata persistenza del sorso. Il Rionda è più impreciso sul piano olfattivo e in ultima analisi più “contadino”, ma la bocca è una bandiera issata su una cima over 8.000: vigore ed energia allo stato puro.
6° batteria: Barbaresco ’71 Gaja Vs Barolo ’71 E. Pira
Per questa batteria è Lello che ringrazia noi: il regalo che abbiamo pensato per celebrare la sua annata, invero assai più benevola con Bacco di quanto lo sia stata con gli esseri umani. Sbriciolamento di tappi e abbondanti residui a parte (caro nebbiolo, quanto ci fai tribolare nelle conservazioni…), mi sembra di poter dire che non abbiamo chiuso male: il Barbaresco di Gaja è un gioiellino di sottigliezza salmastra, arioso di frutto e delizioso nella beva, quello di E. Pira ha più muscoli e più spigoli ma spiega molto bene perché lo svizzero me lo nominava sempre tra i consigli sul millesimo.
7° batteria: Mezzanotte e dintorni
Tanti auguri a te, tanti auguri a te. Prima e dopo, per non rimanere disidratati: 1) un Kinheimer Rosenberg Spatlese ’06 di Merkelbach a cui non è stato dato un attimo di tempo per fargli esprimere il suo passo da riesling estremamente serio e riservato; 2) un Graacher Himmelreich Auslese ’06 di J.J. Prum stappato con un trentennio di anticipo; 3) un Substance di Selosse – sboccatura 2007 – finito nel lavandino (per la serie va bene lo stile ossidativo-fenolico ma se voglio uno Champagne così vado da Gravner e mi faccio personalizzare un Breg con le bolle); 4) un Moncuit ’96 ancora una volta all’altezza dei ricordi e probabilmente di altri millesimati più blasonati e costosi, ideale per brindare al padrone di casa, augurando a lui di rimanere il BelloLello che se non ci fosse bisognerebbe inventarlo e a noi di non ricominciare con quarant’anni di sciascinosi frizzanti…