My cup of tea

Le tradizioni inglesi sono una roba seria e quella del tè delle cinque, chevvelodicoafà, è diventata a dir poco proverbiale. Ma perché proprio a quell’ora?

Pensa che ti ripensa, sono arrivato alla conclusione che le cinque dev’essere l’orario limite per godere della bevanda, l’ultima occasione prima che i suoi effetti eccitanti compromettano il tranquillo riposo notturno.
Più del caffè, dicono gli esperti, che ha un effetto intenso ed immediato, ma non particolarmente lungo nel tempo.
Insospettito dalla questione, e alle prese con un’insonnia ormai cronica, ho deciso di stare alla larga sia dalla tazza che dalla tazzina, e mi sono dedicato al più confortante e soporifero bicchiere.
Grazie ad un’amica ben inserita nelle faccende vinicole londinesi, mi sono intrufolato in un paio di eventi Italian-friendly (ma non solo). Uno dedicato soprattutto ai clienti privati, in alcuni casi molto più redditizi e “liquidi” di enoteche, ristoranti e distribuzione organizzata (specie di questi tempi), l’altro specifico per gli addetti ai lavori.
Due appuntamenti buoni per diluire la birra di questi giorni, assaggiare e in molti casi riassaggiare dei buoni vini, incontrare persone conosciute e altre solamente lette, vedere da vicino come funziona il commercio del vino nel Paese che l’ha inventato.

Ecco com’è andata in qualche foto scattata alla meno peggio:

Il primo appuntamento è firmato Justerini & Brooks, società che si vanta di mercanteggiare in vino dal 1749. Il luogo very Brithis e decisamente classico contribuisce ad una certa atmosfera, la postazione con la possibilità di ordinare casse di vino seduta stante la dice lunga su come funziana il gioco e su quali siano i maggiori clienti della company, soprattutto wine lovers e facoltosi appassionati.

Marc De Grazie e i suoi vini dell’Etna (Tenuta delle Terre Nere). Un perfetto showman cui invidio soprattutto la colorata collezione di foulard

Un serafico Luigi Moio. O’ Professore sfoggiava, come al solito, un perfetto aplomb inglese

Dove c’è Bruno Giacosa c’è casa…

Toh, chi si vede! Carla Capalbo in versione “Decanter”. Bello il suo articolo sul Piemonte nell’ultimo numero del wine magazine inglese

Il secondo appuntamento, dal promettentissimo titolo “Dirty Dozen“, ha messo insieme i vini di dodici importatori “amici”, con una presunta filofofia comune. Lo spazio piuttosto angusto non ha facilitato le cose, però sgomitando un po’ si potevano assaggiare cose molto ma mooolto interessanti.

Deve averla pensata così anche Tim Atkin*, sorridente come in una delle sue trasmissioni alla BBC, sicuramenmte tra i volti più noti del vino londinese

Hi Mrs Robinson! E chi l’avrebbe detto, trovare la vecchia Jancis* (in senso affettuoso s’intende)  tra gli affollati banchetti degli importatori, a fare la fila per riempire il bicchiere come i comuni mortali, per poi prendere appunti sul pc come una scolaretta! Per dire, da noi siamo ancora a combattere con le primedonne che si lamentano se il pranzo servito all’anteprima non è di suo gradimento. Ma mi faccia il piacere…

E i vini assaggiati? Tanti, per la verità, alcuni dei quali piuttosto interessanti. Salto per pietà i riassaggi italiani e vado dritto a una roba francese che mi ha fatto piacere (ri)sgargarozzare. Per dire, erano almeno tre-quattro anni che non sentivo uno Champagne di Jerome Prevost, l’enfat prodige del pinot meunier. Appartiene di diritto all’ultima generazione delle bolle francesi più famose, produce vini bioqualcosa marcatamente ossidativi, di grande sapore. Certo non uno Champagne classico ma un bicchiere pieno di grinta, dai toni ramati, che vale la pena assaggiare prima o poi. Se poi andate a trovarlo, fatevi portare nella “fossa” dove affina le sue bottiglie…

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