Forse ho sbagliato io il momento, ma da quando sono arrivato nel mondo del vino, cioè alla sbronza consapevole (cit.), mi pare che non passi giorno senza che si parli di una nuova tendenza, con vini che salgono e scendono nei gradimenti peggio che sulle montagne russe.
In principio era la barrique e i vitigni francesi, l’enologo figo, il concentratore e le bottiglie da 15 chili. Oggi se per sbaglio nomini il merlot rischi il linciaggio, c’è chi si tocca se per caso lo saluta l’ enotecnico del Consorzio, in cantina il massimo della tecnologia consentita è il vecchio torchio del nonno e le bottiglie sono così leggere da sgretolarsi alla sola imposizione delle mani.
Ah, pare ormai alla fine anche il primato dei vini rossi, forse perché nessuno ha ben capito fino in fondo che diavolo sia il resveratrolo, e proprio quando l’ultimo contadino aveva finito di innestare il trebbiano col cabernet. Pazienza, tornerà certamente buono per le tendenze a venire.
Siccome ci tengo molto ad essere trendy, neanche io mi voglio sottrarre alla nuova moda bianchista, ripudiando per sempre i rossi che abbiano un colore più intenso di un bardolino chiaretto.
Fiero di questa scelta, mi sono buttato a capofitto su tutte le degustazioni di bianchi di cui sentivo parlare, finendo persino ad un blind tasting di tè non fermentati del Fujian e una verticale di latte podolico di varie mungiture.
Tra le diverse esperienze ne ho selezionate alcune…
Comincio con una degustazione “coperta”, di alto livello generale e non priva di qualche sorpresa
I vini sono in ordine di servizio
Subito il botto. La n. 96 di 3960 bottiglie prodotte indica in etichetta 12,3° alcolici in volume ma non è per questo che ricorderò il Trebbiano d’Abruzzo 1969 di Valentini. Potrebbe bastare la sola costatazione che il vino è vivo per stupire, ma c’è molto di più. Come solo i grandi sanno fare si rinfresca nel bicchiere e passa da profumi di miele di rosmarino e tabacco dolce a note minerali iodate e alghe di mare. Certo il palato è piuttosto snello, manca forse un po’ di spalla, ma ha un sapore e una profondità aromatica bellissima che incrocia cenni di pepe e noce moscata. Al di la di tutto, poi, un Trebbiano Valentini riconoscibilissimo. Fuori concorso
La conferma. Non sono d’accordo con chi dice che il ’99 è stato l’anno dell’ultimo, grande Voerberg prodotto. Anche se negli ultimi tempi questo vino non mi ha emozionato, ricordo su alti livelli il 2002, ad esempio (e visto che ne ho qualche bottiglia l’esperimento non sarà difficile). E’ comunque vero che il ’99 sa colpire: lieve aromaticità, foglie d’ortica, polpa bianca e agrumi, pulizia assoluta e profondità acida perfetta. Forse non emozionante, magari un po’ tecnico, ma davvero un grande vino e per di più è sembrato giovanissimo. 90/100
La grande sorpresa. Dopo una Ribolla ‘87 di Radikon che aveva i profumi della mela cotta di mia nonna, ecco un vino che davvero non mi aspettavo di trovare così. Il Trebbiano di Lugana Cà dei Frati 1997 mostra un profilo affumicato su polpa bianca e agrumi, mettendo insieme complessità evolutive e freschezze giovanili, prima di qualche accenno di ribes nero. La bocca è stupenda per tensione e profondità, con l’acidità integrata e un frutto ancora turgido. 92/100
Ma guarda un pò. Colore lievemente velato, profumi di tè, canfora e spezie marocchine, bocca ampia e profonda, puntellata da cenni speziati noce moscata e prorompente acidità. Chi è? Il Trebbiano d’Abruzzo ’95 di Emidio Pepe. Che fa un figurone… 91/100
Le attese. La coppia di Trebbiano Valentini, che mette in campo il ’92 ed il ’90, lascia un po’ di amaro in bocca, non per le oggettive qualità dei vini quanto perché, da subito, i due sembrano reticenti, chiusi, bisognosi di molto più tempo degli altri per venir fuori e dimostrare chi sono. Per dire, il ’92 all’inizio sembra spolverato di caffè appena macinato, una nota dominante che ne oscurare un pò la complessità, mentre in bocca paga una leggera diluizione (89/100). Anche il ’90, piuttosto monolitico sulle prime, esce solo alla distanza e trasforma la frutta tropicale iniziale in bellissime nuance iodate e di anice, mentre in bocca è un mostro di energia (93/100). Insomma: due vini che avrebbero meritato altro trattamento e tempi diversi.
Il calore di un momento. Chi l’ha assaggiato qualche annetto fa giura sulla sua grandezza ma col tempo l’annata calda si fa sentire. Almeno così è sembrato per la nostra bottiglia di verdicchio Villa Bucci ’97. Naso dominato da note mature, di pesca sciroppata e frutta in confettura, bocca rotonda e piuttosto alcolica. Tutt’altro che indimenticabile. 86/100
La sorpresa – atto secondo. Alle iniziali note riduttive, che mi fanno da subito ben sperare, si susseguono stupende sensazioni di agrume candito, mandorla tostata e leggera botrite. Una via di mezzo tra un verdicchio vendemmiato tardi e un riesling, se posso dire la prima fesseria che mi è venuta in mente, anche per via di un corpo pieno ma sfumato, profondissimo grazie ad un’acidità sostenuta e perfettamente integrata. E infatti il vino è il Campo del Guardiano 1996 di Giovanni Dubini, uno dei pochi che mantiene in vita il blasone e la storia dell’Orvieto. 93+/100
Lo famo strano. Se Valentini ’92 era caffè macinato, questo Timorasso ‘95 di Walter Massa è un mulino che macina il grano. Note di lievito a go go e reminiscenze rodaniane, palato ampio e salato, più largo che lungo e segnato da accenni torbati a fine bocca. Comunque divertente. 88/100
Standing Ovation. Se non è il migliore di sempre poco ci manca. E comunque il Pietramarina ’96 è un bianco pazzesco: mediterraneo con tratti nordici, montanaro e allo stesso tempo marino, giovane e agrumato ma con belle note terziarie e carburiche, vibrante e piacevolmente maturo. Da bere a secchiate. 94/100
Segnalo poi questo bianco, pescato in un bellissimo filotto di assaggi dal portafoglio de Les Caves de Pyrene
Domaine Olivier Pithon – Vin de Pays des Côtes Catalanes La D18, annata 2004
Ribattezzato guerillero venu du nord, Olivier Pithon è diventato in poco tempo uno dei migliori produttori dei pirenei orientali, nella catalogna francese. La D 18, che prende il nome dalla strada che attraversa la vigna di grenache grigia con cui viene prodotto il vino, è un bianco spettacolare per intensità aromatica (pietra focaia, idrocarburi) e perfetto equilibrio acido-sapido (altissima sapidità, altissima acidità). Un vino che rapisce, imprevedibile, capace di farsi largo sbracciando e sgomitando, ma anche con finte e contro finte di rara classe. Viticoltura biodinamica
E chiudo con un vino bianco, ma che dico giallo, o forse ambrato, boh…
R. López de Heredia Rioja Viña Tondonia 1989
Non sono un appassionato di ossidazioni, omologanti quanto le peggiori e tanto bistrattate tecnologie di cantina o un uso scellerato dei legni, ma credo di sapermi muovere su quel crinale che separa un vino ossidato da uno ossidativo, e tra questi ultimi gli ossidativi banali da quelli originali. E mi fermo qui perché mi stavo incartando. Comunque: il Viña Tondonia 1989 mi è piaciuto perchè, a dispetto del carattere marcatamente evoluto (noci, spezie, cuoio e quel tocco di zabaione che ricorda alcuni champagne di Selosse) mantiene un nerbo acido preciso ed è capace di ritrovare una certa freschezza nel bicchiere. E con l’abbinamento giusto è un vero divertimento…