Fino a sette- otto anni fa, ero convinto che non avrei mai e poi mai mangiato foie gras, prodotto con un inaccettabile trattamento delle oche, ingozzate fino a farle scoppiare il fegato.
Poi sono passato, in viaggio tra i Paesi Baschi e la valle del Rodano, in un villaggio sperduto e quasi deserto della Francia meridionale. Qui ho conosciuto una signora e le sue 200 oche, la cultura del fegato grasso artigianale, prodotto da generazioni secondo la tradizione di famiglia, con una piccola vendita di preziosi vasetti di vetro pescati direttamente dagli armadi di casa.
E ho cambiato idea.
Qualche giorno fa ho buttato la mia prima aragosta viva nell’acqua bollente. Non è stato facile. Se il lavoro sporco è già fatto, se è qualcun altro a compiere i gesti più atroci, se gli occhi non vedono, tutto sembra più normale e accettabile. In un’epoca in cui la maggior parte del cibo è in scatola o comunque confezionato, il rituale dell’uccisione ci pare addirittura inesistente. Figuraiamoci una tale crudeltà. Eppure l’ho fatto, l’aragosta era buonissima.
Ieri ho letto che un tizio ha comprato al ristorante 1300 euro di aragoste vive e poi le ha liberate in mare (ecco l’articolo che ne parla). Di sicuro più generoso e facoltoso di me.
Le questioni etiche dividono sempre, le sensibilità delle persone sono disparate. Ci mancherebbe. A me interessa più il modo in cui gli animali vengono trattati da vivi, e le ragioni dei polli o dei maiali in batteria non mi paiono meno importanti. Mettendo poi la sofferenza umana, che però a qualcuno sembra interessare meno, al primo posto.
L’argomento mi ha fatto tornare in mente il pranzo di Trimalcione (1 aprile 76) in cui, tra l’altro, vennero serviti: ortolani selvatici, accecati e affogati nell’Armagnac e ghiri nutriti a forza al buio, uccisi senza che abbiano visto la luce del sole…
Faccio outing totale: in questi giorni ho mangiato anche il tonno di mattanza. Ma mi sono rifiutato di guardare il Palio di Siena