Le origini contadine della mia famiglia e il fatto di essere vissuto sempre (più o meno) in campagna, mi hanno fatto conoscere da vicino il rito domestico legato al maiale.
Da bambino e fino una quindicina di anni fa, quando le leggi sanitarie lo hanno reso quasi impossibile. Mi commuovo ancora al ricordo e ritengo quei momenti un fenomeno di elevatissima cultura materiale: dai tristi e silenziosi gesti dell’uccisione a quelli più vocianti e partecipati della lavorazione delle carni, che vedeva sempre un attesissimo banchetto finale, passando per la produzione di salumi e insaccati: salsicce, prosciutti, capocolli, coppe e via dicendo.
Nelle famiglie mezzadrili di un tempo il maiale rappresentava una straordinaria riserva alimentare, specie per il grasso, disponibile dai giorni dell’uccisione (verso la fine dell’anno), quando si consumavano le carni fresche (zamponi, cotechini, costarelle, sanguinacci. Proprio il suffisso –accio da l’idea della derivazione infera del’insaccato, così come per il migliaccio o la padellaccia, da ricondurre al sacrificio dell’animale…), in avanti. Non a caso un vecchio proverbio ricorda che: “se vuoi star bene un giorno piglia moglie, se vuoi star bene un anno ammazza un porco, se vuoi star bene sempre fatti prete”. Il maiale è l’animale dell’ anno e le sue carni scandivano il calendario delle famiglie contadine. Un animale straordinario, insomma. Legato, come spesso accade nel nostro splendido e barcollante Paese, a razze tradizionali e autoctone, presenti un po’ in tutta Italia, allevate e alimentate in maniera sana e pulita: dalla mora romagnola alla cinta senese, dalla casertana al nero dei Nebrodi, tanto per citare alcune delle più note.
Vedere l’ennesimo scandalo alimentare degli ultimi anni è quindi ancora più doloroso. Dalla mucca pazza all’aviaria, passando per i polli alla diossina, tocca ora al maiale ritrovarsi al centro della scena. Non per le sue qualità ma per un’infezione insolita, che sta scatenando il panico un po’ ovunque. Messico e Stati Uniti in testa. Ancora una volta l’uomo e un preciso sistema produttivo sembrano essere i veri responsabili della catastrofe: il virus cresce negli allevamenti intensivi e cambia aspetto genetico attraverso il contatto tra gli animali, costretti a vivere in uno spazio troppo ristretto. Quante tragedie dovremo ancora aspettare prima che si inneschi una riflessione seria e diffusa su nuovi modelli produttivi?