
Stappo ogni due per tre i rossi di Antonio Camillo, e mi vien voglia di chiacchierarne tutte le volte, per due ragioni basilari.
- Sono la perfetta sublimazione del cosiddetto vino gastronomico. Come bersi un mutamento di stato, reminiscenza del solido che diventa gassoso: il punto preciso in cui il vino glu glu compulsivo, da picnic, merenda e sete, sgargaroz e abbinabile alla qualunque, diventa qualcosa di altro e di oltre. La via preferenziale al vino artigiano di territorio nella sua espressione più onesta e compiuta.
- Sistematicamente mi rincuorano, ricordando a modo loro che non soccomberemo tutti al cambiamento: climatico, socioeconomico, tecnologico, o quel che è e sarà. Più di ogni scheda tecnica e dato analitico, sono vini che parlano chiaramente di piante e persone in costante naturale adattamento. Non è un caso che siano proprio le zone e le varietà mediterranee a mostrare le minori trasfigurazioni di questa nuova era viticola, in barba a tutto quello che ci veniva raccontato 10-20 anni fa sulle escursioni termiche, le acidità e i ph. Non è un caso che siano sempre più spesso uve dalla pelle scura e dura come il Ciliegiolo a generare vini tanto armonici e gustosi, ma al tempo stesso stratificati ed energici.
Taumaturgiche in solitudine, enzimatiche in compagnia, di bottiglie così non ci si stanca mai.