A volte ci ho pensato, credo come tutti: candidarmi come 271esimo abitante dell’isola di Tristan da Cunha, il luogo popolato più isolato della Terra (a 2.800 km dal Sudafrica e a 3.300 km dal Brasile).
Ma poi mi sono detto: e se lì non ci fossero enoteche e diventasse un po’ scomodo farsi consegnare quei 7-8 Borgogna annuali necessari a non morire dentro?
Allora resto qua, ma per suggellare la decisione scelgo la trasposizione teoricamente più ostica e riservata, meno disponibile e accessibile. Perché nel gioco delle schematizzazioni espressive Nuits-Saint-Georges è l’ossimoro: la Borgogna severa, tannica, granitica. Più schiaffi che carezze, più rosari all’alba che appuntamenti lussuriosi.
Una volta alla cieca ho detto “Cinque Querce Molettieri” su un Les Saints Georges ’99 di Henri Gouges, tanto per dire (sì, c’è anche questa nella mia lunga lista di uscite imbarazzanti).
E però, pensa che scoperta, Nuits-Saint-Georges non è unico blocco indistinto di viulenz. Certi climat possono ad esempio travestirsi da sorridenti arabeschi di Vosne-Romanée (come certi Vosne possono travestirsi da incazzatissimi Nuits), ma soprattutto certi loro interpreti possono divertirsi un mondo a mischiare le carte.
Uno di questi è sicuramente il buon Chevillon, per certi versi il doganiere perfetto: uno che sembra fatto apposta per sorvegliare il confine tra i due villaggi, facendo impazzire i geometri una notte si e una notte no.
Oltre ad essere buonissimo e finire in dieci minuti, il suo Chaignots 2010 mi pare una volta di più la sublimazione liquida di questa duplicità, che trasforma l’ossimoro in mediazione e compromesso, nel senso più nobile: ombre, rigore, fibra e contemporaneamente suadenza, passione e scirocco.
Tipo quando parti, torni indietro, finta di corpo, no look, vai, non vai, biglietto, stai: e hai sempre ragione.