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Il 2019 in (12) bottiglie

Non necessariamente le “più buone”. In ogni caso quelle capaci di lasciare un segno, scandendo alcuni dei momenti più significativi di questo 2019 che si congeda. Perché il fratello etrusco ha ragione: beviamo per ricordare.

A posteriori una carta dei tarocchi raccolta per strada, più che un semplice fantastico chenin, presunto fratello “minore” del Nourissons di Bernaudeau: salato oltre misura, provava a spiegarmi la vastità di mare che avrebbe allagato i mesi successivi, mentre lo prosciugavo in perfetta egoistica solitudine nel tempo di una canzone.

Non c’è bisogno di scomodare Galileo Galilei, Ernst Mach e Luciano De Crescenzo per sapere che il tempo è un’estensione dell’anima e che ciascuno lo calcola, scompone ed assembla ignorando del tutto orologi e calendari. Il mio Capodanno, ad esempio, cade regolarmente tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, in concomitanza con Campania Stories e Vinitaly: l’inizio non più differibile della nuova stagione di giri, assaggi, schede, doveri; lo splendido Tognano ’16 di Rocca del Principe la bottiglia stappata a mezzanotte prima di mettersi in viaggio (link).

Sono sempre più convinto che i grandi vini si muovano fondamentalmente in due direzioni: dall’alto verso il basso o dal basso verso l’alto.
Gli “immersivi” sono quelli che ti stordiscono dal primo impatto, catturandoti all’aria e trascinandoti in profondità, cunicolo dopo cunicolo, costringendoti a scendere e scavare fino al nucleo della terra e della propria cellula primigenia.
Gli “emersivi” sono il corrispondente speculare, la nemesi, la variabile che bilancia l’equazione. Con loro sei direttamente nel pozzo più buio che tu possa immaginare e non hai altra soluzione che seguirli, facendoti guidare dalla loro voce che indica la strada verso l’uscita. Aggrappandoti a qualunque spuntone, anche immaginario, arrampicandoti alla cieca, ricadendo indietro e riprovando ancora e ancora, fino a rivedere superficie e luce: pastelli bianchi, gialli, verdi e azzurri, come non li hai visti mai.
Va bene, facciamo che bevete quanto prima il Piedirosso di Agnanum e la Falanghina di Contrada Salandra 2010 e capite da soli cosa intendo per l’una e l’altra tipologia, senza bisogno di parole.

Bottiglia David Foster Wallace del 2019: tra le cose divertenti che non farò mai più c’è la caccia al tesoro di surrogati liquidi ed esistenziali chiamati alla missione impossibile di colmare vuoti ed assenze. E quindi, per quanto mi riguarda, basta con la Borgogna Bianca “accessibile”: mi sta bene incontrarsi anche una volta ogni dieci anni, come Will ed Elisabeth de I Pirati dei Caraibi, ma che sia così e sempre solo così: un Coche, pure village e perfino in annata sulla carta grama.

In unico sorso tutta l’alterigia, la supremazia, e la spietatezza di chi sa di essere in qualche modo eterno: siamo ben poca cosa di fronte all’infinito universale e Latour ’82 purtroppo (o per fortuna) ce lo sbatte in faccia.

Assaggiandolo alla cieca nove volte su dieci va così: il cervello dice premier cru di Bordeaux-riva sinistra, il cuore insinua il dubbio avvertendo pulsazioni meticce, lo stomaco riconosce quella fiamma iodata che collega Atlantico e Mediterraneo solo nelle migliori versioni del Vega Sicilia Unico. L’86 si conferma in pieno fra queste: un rosso signorile e gioioso insieme, sobrio e cordiale, riservato ed empatico, inclusivo.

Cuore di una primavera che tarda a sbocciare climaticamente ma vibra in tutta la sua violenza in ogni altrove. E trova sintesi perfetta in un Barolo unico, nel senso più autentico della parola: non complessità ma identità, non volume ma densità, non armonia ma caos. E’ Frankenstein che urla: voglio vivere.

Quando pensi non sarò mai più felice di così, anche se sai che non è vero. Quel momento in cui ogni cosa è al suo posto e tutte le connessioni sono possibili e reali, benché provvisorie. Quello spazio circolare dove il qui e ora si fonde con lo ieri e il domani, radunando qualunque coppia di opposti e celebrandone l’unione inevitabile e definitiva. La scintilla del big bang indistinguibile dal buco nero finale in un vino sempre magico come lo Chateau-Chalon 2007 di Jean Macle.

E’ Louis Renault-Claude Rains che accompagna Rick Blaine-Humphrey Bogart nella nebbia di Casablanca, inaugurando (forse) una bella amicizia. O George Downes-Rupert Everett che chiama a ballare Jullianne Potter-Julia Roberts nel finale de Il matrimonio del mio migliore amico. Istinti vitali incarnati, molto più che banali spalle consolatorie: ci ricordano che è meno facile ma più semplice ed efficace lasciar andare ridendoci su. Con la stessa infuocata naturalezza che trasborda dal La Roque 2010, la grenache da alberelli centenari prodotta della famiglia Gauby a Calce, Catalogna Francese.

Quando il Benjamin Button dei rossi italiani era un distinto professore di greco e latino temuto da tanti e stimato da tutti, prima di trasformarsi con l’era collettiva in un adolescente brufoloso e insicuro. L’inversione temporale del Taurasi, che incanta ancora con una delle versioni più aristocratiche ed ipnotiche degli anni ’80.

La bottiglia del rieccoci ancora qua nonostante tutto. Quella della merenda e del dopocena, degli auguri e dei saluti, del domani cambiamo ma oggi no. Vino intra-generazionale se ce n’è uno, il Barbacarlo: ben felice di farsi carburante conviviale e pista di lancio preferenziale per voli sospesi tra nostalgie e speranze, proiezioni e desideri, battaglie, armistizi e rinascite.

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