Gualtiero Marchesi, cuoco pre-Sacchiano

Marchesi-Sacchi

«Litigavano sempre ma ognuno cercava di cogliere per sé il meglio dell’altro. […] Quando iniziavano a pensare al loro mondo padano-popolare, era uno spasso sentirli discutere di una certa trattoria dove sì la Pina era brava con le rane, ma sua madre lo era molto di più. Andavano avanti ore. Pur essendo su posizioni opposte, riuscivano ad andare d’accordo. […]». (Carlo Cracco intervistato da Paolo Marchi per il sito di Identità Golose – link)

Visto con gli occhi di Giovanni Luigi Brera, di San Zenone Po come lui, Gualtiero Marchesi era dunque una specie di Arrigo Sacchi dei fornelli. Cresciuto a casseoula e catenaccio, diventato “il” cuoco italiano per antonomasia con pensieri ed opere da eretico. Separando tradizione e dogma.

Pallone e cucina, oggi come allora religioni assolute con più sacerdoti che fedeli. Sacchi li provoca, irrita, conquista, illude, spuntando praticamente dal nulla. Senza una vera carriera da calciatore alle spalle, perché 13 anni tra i dilettanti a Fusignano è hobby. Uno sconosciuto che pretende di parcheggiare Nereo Rocco, Bearzot e Trapattoni, gli eroi del mundial ’82 e le teorie di Brera sull’ineluttabilità genetico-razziale del calcio speculativo italico. Per far posto ad una versione ancor più calvinista e maniacale del total football olandese: pressing, zona a tutto campo, intercambiabilità dei ruoli, atteggiamento offensivo in qualunque condizione di ambiente e punteggio.

Marchesi attua qualcosa di molto simile, solo con un decennio di anticipo. Anch’egli non segue la classica trafila di stagista-apprendista tra le brigate di serie A. Ma non è nemmeno un autodidatta in senso stretto: la sua è una famiglia di locandieri-ristoratori della Bassa Pavese e qui impara i fondamentali. Ritornandovi sia dopo il triennio di scuola alberghiera a Lucerna, sia dopo le esperienze a Saint-Moritz, Parigi, Digione, Roanne. Quando decide di mettersi in proprio, 1977, il salto è però netto: c’è più Brillat-Savarin che Artusi, più Crujiff che Bettega, a Bonvesin de la Riva. Indirizzo milanese del laboratorio in cui si materializza una vera e propria riforma gastronomica.

Già, Milano. Altro ingrediente comune ai due avanguardisti. La Milano da bere e da mangiare, anzi da spolpare. Approdo supremo per chiunque avesse fame e idee, meglio ancora se apparentemente assurde. Moda, design, edilizia, imprenditoria, comunicazione, intrattenimento. E naturalmente politica, che si gioca soprattutto a tavola e negli stadi. Silvio Berlusconi da Arcore lo comprende prima di molti altri e dà asilo a Sacchi, concedendogli per il suo Milan – appena acquisito – il tempo fisiologico di ogni rivoluzione.

Ma il terreno lo preparano anche quelli come Marchesi: il raviolo aperto anticipa la difesa alta, il riso oro e zafferano si fa icona immortale di un’epoca come Baresi col braccio alzato. Vi vengono in mente altri piatti che racchiudano con uguale forza ed esattezza lo spirito degli anni ‘80? Ben oltre i Navigli, condensato socio-sensoriale di bramosia, abbondanza, libidine, esagerazione. Da studiare a scuola tanto quanto il liberismo reaganiano-thatcheriano e Wall Street di Oliver Stone.

Crediti: olioofficina.it

Vite parallele che continuano ad incrociarsi idealmente nella scalata verso i rispettivi olimpi. E’ di nuovo Marchesi a preannunciare i fasti del Milan di Berlusconi e Sacchi: per la prima volta vengono assegnate le tre stelle Michelin ad un ristorante italiano, motivo per cui il 1986 non è solo l’anno del metanolo. Come vincere la Champions League battendo in finale il Paris Saint Germain a domicilio. Del resto è il più francese dei nostri cuochi, banalizza qualcuno, parlando di nouvelle cuisine in salsa meneghina. Senza capire che è invece il definitivo innesco di un percorso inedito e in qualche modo irreversibile.

Come Sacchi traghetta il calcio italico nella modernità. Coi risultati. Scudetto da debuttante in massima serie e acclamazione da tristellato ancor prima di aver messo in bacheca due Coppe dei Campioni consecutive: il 5-0 rifilato al Real Madrid in semifinale urla forte e chiaro che presente e futuro sono qui. Che c’è molto altro dietro la pizza e gli spaghetti al pomodoro. E che perfino quelli possono trasformarsi, scomporsi, reinventarsi, mettersi al servizio di un progetto tecnico-tattico collettivo.

Non è rimasto più nessuno a giocare col libero o la marcatura a uomo, da molto tempo. Né voce dell’alta ristorazione che non leghi oggi la propria proposta culinaria a stimoli di carattere storico-culturale, estetico, artistico. L’anomalia è stata assorbita dal sistema, è un dato di fatto. Ma quando il processo si compie è anche il momento in cui gli apripista faticano maggiormente a ricollocarsi.

Il declino mediatico di Marchesi inizia simbolicamente con la perdita della terza stella nel 1997. E si sublima 10 anni dopo, quando chiede pubblicamente alla Michelin di non valutare più il suo locale (diventato nel frattempo l’Albereta di Erbusco), e limitarsi ai commenti. Applaudito da molti, specialmente nella parte che – semplificando – urla: “il nostro lavoro non è finalizzato a voti e stelle, tantomeno abbiamo bisogno di una guida franco-centrica, incapace di riconoscere la grandezza della cucina italiana”. In ogni caso un dichiarato auto-confinamento a ruolo di totem. Inevitabile inquadrarlo anche come reduce stanco e disilluso. Che magari non ha più voglia o forza di misurarsi nel quotidiano con quello stesso complesso di regole implicite ed esplicite che ne avevano fatto un numero uno.

Stavolta è Sacchi a preconizzare la parabola discendente. Anche qui c’è un episodio chiave: 20 marzo 1991, ritorno dei quarti di finale di Coppa Campioni a Marsiglia contro l’Olympique di Bernard Tapie. Il Milan sotto di un gol e vicino all’eliminazione, un riflettore dello stadio che smette di funzionare a pochi minuti dal termine, l’A.D. Adriano Galliani che scende in campo indicando ai suoi di ritirarsi: la storia la conosciamo. Coincidenza (?), ancora Francia di mezzo. In eurovisione il punto più basso della sua avventura milanese. Che pesa probabilmente sulla decisione di lasciare a fine stagione almeno quanto l’insofferenza di calciatori come Gullit e Van Basten verso i carichi di lavoro e l’approccio quasi ossessivo del tecnico romagnolo.

Nella seconda vita di Sacchi c’è ancora spazio per una finale mondiale conquistata con la nazionale a Usa ‘94, senza tuttavia riuscire a proporre – salvo rari lampi – quel gioco spettacolare che l’aveva reso famoso nel mondo. Poi solo delusioni, la malinconica appendice al Milan da subentrato, l’esonero con l’Atletico Madrid e le tre-partite-tre al Parma del gennaio 2001 dopo le quali dice basta: troppo stress.

Negli stessi anni per Marchesi si compie invece la definitiva transizione a status di “venerabile Maestro”, per dirla con Arbasino. Non solo per i tanti allievi svezzati, molti dei quali protagonisti e protagoniste di primo piano della scena contemporanea. Crippa-Cracco-Knam-Lopriore-Berton-Budel-Leemann-Oldani-Canzian-Baronetto-Arcangeli-Drouadaine-Ghilardi-Gariboldi-Heidsieck-Visconti: ne viene fuori una squadra e mezza di “galacticos”, citando soltanto i più affermati e stimati dal cuoco padano (link).

E però nessun vero “erede” designato. Piuttosto qualche buffetto da dispensare, via via con maggiore frequenza negli ultimi tempi. Come a rimarcare una distanza generazionale (ovvia) ed ontologica (assai meno scontata) rispetto alla febbre gastronomica di nuovo millennio. Gli chef-star tipo calciatori, la cucina televisiva H24, i ricettari, le consulenze, i festival, gli influencer, le foto di ogni piatto, il dibattito permanente, gli effetti speciali, e ancora. Un universo che forse esisterebbe ugualmente, ma che Marchesi ha senza dubbio contribuito a costruire. Eppure troppo da metabolizzare, tutto insieme e con questa rapidità, per chi ha dovuto sfidare tortellini alla panna e porzioni da camionista in tempi decisamente non sospetti.

Leggendolo e ascoltandolo in questi anni, ho spesso pensato al Sacchi seduto nello studio di Mediaset Premium. Anche lui ha avuto i suoi discepoli: mostri sacri (e vincenti) come Guardiola, Bielsa, Benitez, Klopp, addirittura Mourinho e Simeone, lo citano da sempre come inesauribile fonte di ispirazione per i propri principi calcistici. Carlo Ancelotti, che è stato un po’ il suo Lopriore, gli ha dedicato nientemeno che la dècima (Coppa Campioni) conquistata col Real Madrid. E leggenda vuole che Maurizio Sarri non avrebbe lasciato il lavoro in banca senza il Milan di fine anni ’80 e l’incontro dal vivo con l’Arrigo.

Chiamato oggi a commentare le loro partite, non lesina critiche e rilievi nonostante le affinità elettive. Qualcuno la prende male, sottovalutando un disagio di fondo che riguarda solo marginalmente il passaggio all’altro lato della barricata e la nostalgia dei gloriosi tempi che furono. E’ invece il manifestarsi del medesimo miscuglio di insoddisfazione e frustrazione che Sacchi viveva in panchina, perfino dopo certe vittorie. L’incapacità di accettare l’essenza stessa dell’utopia, per sua natura irrealizzabile. E che la perfezione, o qualcosa che le somiglia molto, è un privilegio di singole giornate ma non uno stato permanente.

Io credo che Gualtiero Marchesi non abbia provato sensazioni tanto diverse nella parte finale del suo viaggio professionale ed esistenziale. Perché nemmeno il più grande dei Maestri può scegliersi tutti gli alunni e tra i marchesiani – o autoproclamatisi tali – ci finiscono anche quelli che hanno frainteso la lezione. Esattamente come non sono certo mancati sacchiani dispensatori di bruttezza. E soprattutto la consapevolezza di una parabola giocoforza destinata a concludersi: resteranno segni e semi, che germoglieranno ancora e ancora. Ma prima te ne devi andare.

Crediti foto di apertura: rollingstone.it e biografieonline.it

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