
Provo le sensazioni più disparate davanti ai giri di parole. Invecchiando, comunque, prevale una sorta di tenerezza.
Le persone non dicono tumore, ma brutto male. Pronunciano scomparso, anziché morto. Disoccupato, al posto di senza lavoro. Paure, obblighi sociali, veri e propri tabù: perifrasi e sinonimi sono le corazze che indossiamo nella sincera illusione di rendere accettabili, chiamandole in un altro modo, molte delle cose che con la sola ragione accettabili non sono.
Istinto di sopravvivenza, una delle sue infinite manifestazioni, che diventa automatismo quotidiano. E pure bene monetario: ci compriamo tempo, ogni volta che dribbliamo una discussione con chicchessia grazie a una frase “detta bene”. Porgendo il nostro pensiero originario solo dopo averlo modellato in una forma contigua, ma sostanzialmente diversa negli effetti sull’interlocutore.
Vale naturalmente anche per le faccende vinose. Usiamo “pungenze eteree” in luogo di “aceto”. “Si manifesta il contributo del rovere” per evitare “legnone”. “Non così nelle mie corde” perché “da lavandino” non si può scrivere se l’ultima cosa che si vuole è rendere conto a chi non è d’accordo. E mille altri esempi che ci passano sotto gli occhi ogni giorno e meriterebbero un glossario dedicato. Dizionario Vinese-Italiano: penso proprio che mi ci dedicherò, a beneficio dei tanti bevitori che vorrebbero ma raramente trovano impressioni di assaggio non filtrate.
Sarebbe un errore, tuttavia, ricondurre tutto a logiche di ipocrisie, pavidità e captatio benevolentiae. Le circonlocuzioni hanno anche a che fare con l’empatia, per cominciare: tendenzialmente non ci piace non piacere, per restare in tema di giri di parole. E poi, è l’unico trucco che conosciamo per dilatare la ricreazione. E’ una racchetta con cui rimandiamo palla nell’altro campo, la perifrasi. E’ il codice che usiamo per proporre al prossimo: dai, giochiamoci questa partita di chiacchiere, anche se non si vince niente. O meglio tutto, poiché nulla di davvero brutto può accaderci fin quando siam qua a fare Federer e Nadal.
E’ solo in parte per disinnescare il produttore incazzato, insomma, che adottiamo certi accorgimenti quando condividiamo i nostri pensieri sui vini. Scegliamo di tenere aperto lo scambio, barattiamo “verità” (la nostra) con compagnia. Paghiamo un tributo al compromesso, ritenendolo in ultima analisi più sostenibile di quello che esigerebbe sua maestà Esattezza. Che è invece un tie break. E chiusa lì. Poi solo tribune vuote, silenzio, deserto. Un fermo immagine senza sonoro, quando gareggia signora Esattezza. Pace e vuoto insieme: niente da difendere, niente da aggiungere, niente da muovere, dove vigono le leggi di regina Esattezza.
Per cui, la prossima volta che leggerete “severa trama estrattiva” o “scalpitanti timbri ematici”, non arrabbiatevi. Sorridete di umana comprensione piuttosto, e sentite quanto è bello stare lì nella nebbia coi ragionieri Filini e Fantozzi.
Grazie della tua riflessione che trovo molto azzeccata, soprattutto di questi tempi.
Personalmente non credo di essere immune dall’utilizzo non sempre giustificato delle perifrasi. Però, pur con tutte le accortezze del caso, cerco sempre di far capire se quel vino mi è piaciuto o no, pubblicando spesso, per maggior chiarezza, il famoso numerino in centesimi.
Che, ora che ci penso, sta cadendo in disuso proprio per i motivi che richiami nel post.