
Se amate i bianchi irpini, quasi sicuramente vi suona familiare il nome “Valle del Sabato”, sottozona di origine di ottimi (e talvolta grandi) Greco di Tufo e Fiano di Avellino. Purtroppo dalle mie parti è più facile che lo sentiate associato, soprattutto negli ultimi anni, ad argomenti assai meno piacevoli: rischio ambientale, inquinamento, salute. Chi vuole approfondire recupererà agevolmente sul web numerosi post e articoli sul tema (link, link, link). Quello che segue è invece un testo scritto nel 2003 per una ricerca sulle materie prime della cucina campana, che mi portò a Prata Principato Ultra per saperne di più sulla coltivazione del pregiato aglio locale. Mi è tornato in mente in questi giorni, dopo l’ennesimo dibattito sulle prospettive di sviluppo delle “terre di Bacco” (Sabatium era uno dei nomi latini della divinità enoica): buona lettura!
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Si chiamava Michele. Ma poteva chiamarsi in mille altri modi. In fin dei conti era solo uno dei tanti bambini che nell’Irpinia degli anni ’30 e ’40 soffriva di malattie respiratorie, dall’asma alla tubercolosi.
Per chi aveva la possibilità c’erano i sanatori, ospedali che curavano col sole e l’aria pura, chi non poteva si affidava a metodi più artigianali, mettendo insieme scienza e superstizione.
Niente sanatorio per Michele, ma una cura speciale messa a punto negli anni dagli anziani del suo paese, Prata Principato Ultra, alle porte di Avellino. Accompagnato dal fratello più grande, usciva di casa alle prime luci dell’alba, quando i genitori si avviavano verso la campagna di Alisca Tonna, e con fatica si dirigeva “abbascio ‘e Ripe”. Tante soste per prendere fiato e poi l’arrivo in cima alla rupe per aspettare un treno. Con lui in attesa ogni mattina altri tre, quattro bambini. Non era la stazione, bensì la parte superiore di una galleria. Da un momento all’altro avrebbe cominciato a tremare la collina e da sotto sarebbe spuntato il treno partito da Avellino e diretto a Benevento. In quell’attimo ai “pazienti” sarebbe toccato inspirare forte la “fumata bianca” del treno, un misto di vapore, carbonio e zolfo, che all’interno della galleria si concentrava massimamente per liberarsi all’uscita. Una sorta di aerosol naturale su cui molti medici oggi avrebbero forti dubbi e al quale Michele e gli altri si sottoponevano quotidianamente. Respirava forte, Michele, quando la collina tremava.
La prima tappa di una terapia che sarebbe continuata al ritorno in paese, dove lo aspettava un decotto di aglio, latte e miele, che doveva servire ad amplificare la funzione espettorante attivata dalla fumata bianca. Una specie di pozione, la cui preparazione nessuno è disposto a rivelare, anche oggi che le malattie respiratorie si combattono con gli antibiotici. Beveva fiducioso, Michele, quando la signora Amelia gli metteva in mano la tazza con il decotto. La medicina giusta, dicevano, e qualcuno addirittura citava Ippocrate, un nome sentito chissà da chi e subito memorizzato perché “era il medico dell’aglio”.
Fatto sta che Michele guarì, giusto in tempo per non essere riformato alla visita di leva e andare a morire in Africa, nella battaglia di Alessandria, durante la seconda guerra mondiale. Lo piansero in tanti in paese, perché era un ragazzo buono prima ed oltre la retorica della commemorazione funebre. Lo piansero gli altri pazienti, lo pianse il treno, che oggi non fuma più. Lo pianse la signora Amelia, che ogni giorno, finché le ressero le forze, portava i primi fiori davanti alla tomba di Michele, senza mai darsi pace. Smise per sempre di preparare il decotto, perché d’aglio si può vivere, ma d’aglio si può anche morire.

L’aglio di Prata non esiste. Non è riconosciuto da alcun registro varietale, perché viene considerato un ecotipo locale della varietà “Bianco napoletano”.
Eppure ad esso si fa riferimento in diversi documenti del ‘700, negli appunti di viaggio di Victor Hugo, in alcuni resoconti del XIX° secolo. Questo piccolo paese, infatti, si è da sempre segnalato per la sua prestigiosa vocazione agricola, alimentata da terreni fertili, ricchi di minerali, soprattutto nelle zone in prossimità del fiume Sabato, oggi poco più di un torrente inquinato dalle fabbriche che compongono il nucleo industriale, ma navigabile fine gli anni ’60.
Vicino al fiume si trovano le zone di Alisca Tonna e di Contrada Fea, quelle maggiormente redditizie per l’agricoltura, dove si coltivavano e si coltivano tuttora ortaggi, legumi, alberi da frutto, soprattutto il nocciolo. E tuberi e bulbi: patate, cipolle, agli. Un aglio che qui sembra aver trovato l’habitat ideale, sia per la capacità produttiva, sia per le caratteristiche del prodotto finito: un aglio che, dicono gli abitanti del posto, “è meglio di tante medicine”. Mancano studi e ricerche specifiche, ma nel sentire popolare esso sembra possedere, in maniera accentuata, tutte le proprietà che nei secoli sono state riconosciute a questa amarillidacea dall’intenso odore: un analgesico, un antistaminico, un gastroprotettivo, efficace per la regolazione della pressione e capace di incidere sui valori di colesterolo “cattivo”.
Nel 1858 Louis Pasteur certificò le sue qualità antibiotiche, mentre Albert Schweizer lo impiegò in Africa agli inizi del ‘900 per combattere la dissenteria e altre epidemie come tifo, difterite e tubercolosi. Studi epidemiologici condotti recentemente in Cina (dove l’uso dell’aglio risale ad almeno 3000 anni fa) indicano una significativa diminuzione del rischio del cancro allo stomaco negli abitanti della provincia di Shandong, abituali consumatori di aglio e di altre liliacee. A Prata, fino agli anni ’60, si registrava un tasso di longevità molto alto, di gran lunga superiore ai paesi vicini, e tra le ipotesi che vengono formulate per spiegare questo fenomeno c’è quella legata alla rilevante produzione e al consumo di aglio nella comunità pratese. Oggi l’indice di senilità è molto simile a quello dei borghi limitrofi, ma è facile immaginare che su questo abbia inciso la vicinanza delle industrie, prima di tutto quelle chimiche: si produce molto poco rispetto al passato e se ne consuma anche meno.
Ciononostante sono tanti i piatti della gastronomia pratese che vedono l’aglio protagonista: innanzitutto la zuppa d’aglio, condita con pomodoro fresco e salsiccia, e completata alla fine da un uovo stracciato. Oppure la frittata d’aglio, piatto non propriamente leggero, ma molto amato, soprattutto dai più anziani. O, ancora, i biscottini all’aglio. Ma al di là dei nomi delle pietanze, l’aglio entra in tutte le preparazioni e non sono poche le cucine, ma soprattutto le cantine, che accolgono orgogliose delle grandi “’nzerte”: trecce fatte di agli, legati a coppie, e paglia, che possono raggiungere anche i 3 Kg di peso. Un packaging, si direbbe oggi, molto caratteristico, bello da vedere, che si sta perdendo, perché è molto più facile recarsi al supermercato e prendere di volta in volta piccoli quantitativi di agli belli e bianchi. Ma c’è ancora chi ci tiene a preparare ‘a ‘nzerta: i re indiscussi sono Zì Ciccio, al secolo Francesco Nicoloro, e don Generoso Marano detto ‘o luongo, suo amico da sempre.

Zì Ciccio è arrabbiatissimo perché la notte precedente gli hanno rubato una bella quantità di agli. Ha più di un sospetto su chi possa essere stato, ma non lo vuole rivelare.
Quegli agli sono la sua passione e la sua disperazione: «Li prenderei tutti e gli darei fuoco sopra all’aia. Tanto conviene più a bruciarli che a venderli». Coltivare l’aglio è molto più difficile e faticoso di quanto si pensi: bisogna stare attenti alla semina, al concime che si usa, alla preparazione dei canali di coltivazione, ai solchi, ma soprattutto non si possono usare procedure meccaniche, dato che i bulbi vanno piantati a 15 cm di distanza l’uno dall’altro. E poi seguire attentamente l’evoluzione del colore delle piante che spuntano in superficie per tirarli fuori dalla terra nel momento giusto per la successiva conservazione.
Ma ora i grossisti offrono poco, troppo poco per il lavoro e la cura che ci vuole. Non è una scoperta, è quanto accade per molte delle coltivazioni della zona, ma non solo, che hanno alti standard di qualità, ma magari non hanno un marchio di tipicità riconosciuto e promosso. Fresa (trita) gli agli appena raccolti, Zì Ciccio, e si prepara a metterli nel terreno che sta per ospitare le piantine di pomodori. L’aglio consegna il testimone al più remunerativo ortaggio rosso e lo difende dai “trappiti”, le talpe che amano i pomodori ma detestano l’intenso odore del bulbo a spicchi. Una vita passata in quel pezzetto di terra a Contrada Fea, un’energia contagiosa che esplode fra gli scatti d’ira e le maledizioni per quella vanga che anno dopo anno sembra non bastare più per vivere bene. Uno sguardo diretto, senza mezze misure, e la sicurezza di chi ha ancora molto da dire e da lottare, ad ottant’anni. Ti chiedi dove prenda tutta quella forza. Ti risponde che a casa lo aspetta un bel decotto d’aglio.
Ps Zì Ciccio è morto nell’aprile del 2008, in Irpinia viene ancora ricordato per il vecchio carretto con cui trasportava le sue ‘nzerte ai mercatini settimanali della zona.
Foto di apertura: Tenuta Percesepe Country House, Montemiletto (AV)