L’ultima volta che sono stato al Povero Diavolo ho capito che la fine era vicina, anche se non immaginavo minimamente quanto.
Una domenica di fine maggio, l’aria frizzante dopo il temporale, i piatti di Pier Giorgio Parini scintillanti come sempre, al pari dell’aria burbera del patron Fausto Fratti. Lui è fatto così, prendere o lasciare. Può sembrare scontroso, forse lo è, ma a me piace lo stesso. Ha il vizio di non fingere né atteggiarsi, cosa che nel jet set gastrofighetto di oggi è colpa grave. Io però ho elaborato uno stratagemma per capire se è contento: basta guardare con attenzione sotto i baffi alla Tom Selleck. Nei picchi massimi di empatia fa una leggera smorfia con la bocca mentre il sopracciglio si inarca verso l’alto e gli occhi sono più spalancati del solito.
Quando stai mangiando Fausto è discreto. Niente soggiorni ai tavoli, tutt’al più qualche incursione veloce. Poche domande strettamente necessarie, magari due parole a mezza bocca sul vino. Se si sceglie di dormire nelle stanze della locanda, è il mattino a dar voce ai pensieri. Davanti ai ripetuti caffè della colazione tutto si fa più intimo e le chiacchiere prendono piede, quasi inciampassero in discesa. E’ in quel momento che ho capito.
“Dovremo prendere una decisione – mi fa -. Sia io che mia moglie siamo arrivati ad una certa età e la stanchezza si fa sentire. Questo è un lavoro duro. Pier Giorgio è giovane, brillante, vedremo che vorrà fare. Costruire il Povero Diavolo non è stato facile, specie dopo l’uscita di scena di Riccardo Agostini, quando abbiamo dovuto ricominciare e tutti ci davano per spacciati. Invece siamo diventati quel che siamo ma l’alta ristorazione, in Italia, non è affatto semplice. I costi sono esagerati e far andare avanti la baracca è un’impresa.”
E poi la butta là: “magari in futuro il Povero Diavolo tornerà a fare una cucina semplice, di territorio. Oppure andremo in pensione, chissà.”
Pare che quel bivio sia già arrivato. Parini ha appena annunciato che a settembre lascerà il ristorante. Le riflessioni a caldo di Fausto sono in questa bella intervista di Massimiliano Tonelli per il Gambero Rosso. Quelle degli addetti ai lavori e dei tanti appassionati in divenire e molteplici.
In questo momento, più che del futuro di Parini, mi piace soffermarmi su una questione generalizzabile che ho estrapolato dall’intervista di Fausto.
Sentite che dice:
“I programmi erano decisamente altri. Avevamo investito molto su questo chef, era tanto che stavamo assieme, è vero, ma l’idea era di continuare, avevamo investito molto qualche anno fa sul rifacimento della cucina e anche quello era un investimento su di lui. Ora ha deciso così, peccato.”
Ecco. Non riguarda solo i cuochi e i ristoranti ma ogni attività in cui il contributo apportato da un dipendente è determinante per la sua stessa identità. Così tanto da orientarne processi, progetti e investimenti.
Se non sei il magnate russo o lo sceicco di turno ma investi rischiando di tuo, le inversioni di rotta unilaterali si possono pagare a caro prezzo.
Il mondo del lavoro è in divenire, molto fluido rispetto al passato; pensare che qualcuno passi tutta la sua vita in un posto è ridicolo, figuriamoci se si tratta di un cuoco brillante. I cambi di maglia sono sempre più frequenti, anche se non ti chiami Higuain, ed è giusto che ognuno faccia delle scelte e segua le sue legittime ambizioni.
Che fare, allora? Se avete deciso di aprire un ristorante, propongo una di queste 5 soluzioni:
1) Siete lo chef patron. Nessun problema, dunque, fate solo attenzione a scegliervi la moglie o il marito giusto e non litigate col vostro stesso cervello. La sorte del locale dipende da voi.
2) Se avete scelto un cuoco che vi piace da morire e su cui puntate ciecamente, cercate di ancorarlo alle fortune del ristorante. Una piccola quota sociale, dei premi al raggiungimento di certi obiettivi, una parte di guadagno variabile, agganciato al fatturato dell’attività, potrebbero essere questioni di cui discutere col vostro consulente del lavoro.
3) Fate dei piani quinquennali con i vostri collaboratori. Suona un po’ sovietica come misura ma, in un momento storico in cui le programmazioni di medio-lungo periodo paiono fantascienza, pianificare l’attività può servire a tracciare un percorso chiaro e condiviso. In questa maniera si eviterà di fare investimenti inutili, scelte incoerenti con l’andamento dell’impresa e, peggio ancora, con la visione dei singoli elementi del gruppo.
4) Cercate di avviare un locale in cui sia determinante la squadra e non il singolo. Nessuna stella o prima donna, per quanto possibile, ma un collettivo che renda intercambiabili ed eventualmente sostituibili gli elementi. In questo caso puntare sui giovani è d’obbligo. Non è facile, ci vuole fiuto, ma può regalare grandi soddisfazioni.
5) Costruire un locale che faccia del turn over la sua filosofia. Simile al punto precedente ma ancor più sistematico nel ricambio ai fornelli. La missione sarà quella di costruire le stelle di domani, lanciando giovani cuochi e cambiando periodicamente l’impostazione stilistica della cucina. Insomma, trasformate le criticità in vantaggi. Con una buona organizzazione e la comunicazione giusta eviterete l’effetto assuefazione del personale e quello noia dei clienti. Con un po’ di fortuna, potreste costruire la Cantera della ristorazione italiana.
Foto di testa: witaly.it