
Quarta parte del nostro “gioco tarantiniano”: otto vini italiani raccontati da altrettanti haters. Quando il fastidio è più forte di ogni lucidità analitica.
Qui, qui e qui le precedenti puntate
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Percarlo, San Giusto a Rentennano. O delle idiosincrasie osmotiche
di Beatrice Infante *
Intendiamoci subito: io non ce l’ho col Percarlo, ma coi Percarliani dogmatici.
Con quelli che non avrai altro sangiovese al di fuori di lui.
Quelli che, se non ne riconosci la grandezza, sei un lobotomizzato ideologico inaffidabile.
Quelli che non ci hanno mai sentito maturità, tostature, asciugature alcoliche e tanniche.
Quelli che la colpa è tua, perché dovevi stapparlo tra le 15 e le 15 ore e un quarto in anticipo.
Quelli che non c’è nessuna differenza espressiva tra le prime e le ultime annate.
Quelli che San Giusto alle Monache di Gaiole in Chianti non è una zona calda.
Quelli che si sentono liberi di parlare a nome della famiglia Cigala.
Quelli che c’è sempre un noi e un voi.
Quelli che non capiscono i danni causati ai loro totem. Tipo farlo detestare per osmosi, a furia di lezioni e protesi di complotto, perfino a coloro che in realtà lo apprezzano. Per quello che è da sempre, nelle intenzioni stesse dei suoi artefici: un sangiovese di fibra e materia, chiamato a viaggiare nel tempo col passo di certi Médoc. Che può essere molto buono e talvolta grande, ma anche impegnativo e faticoso in certe fasi.
Portatemi un Percarlo 1985 o 1990 e vi ringrazierò. E pure i migliori recenti, ma il giorno in cui assomigliano davvero a quelli là. Non l’ho mai escluso, la pazienza non mi manca. Siete voi a non meritarla. E quando il maestro Hanzo finisce il suo lavoro, vengo a farvi visita.
* spadaccina
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Breg Bianco, Gravner. Perché chi si accontenta non gode
di Giulio Campilieti *
Devo riconoscere, in tutta onestà, che non sarei diventato così famoso senza quei simpatici mattacchioni della Gialappa’s Band. Se non avessero fatto il video per Mai Dire Gol, nemmeno mia mamma se ne sarebbe accorta. Ma da quel giorno tutto è cambiato, e sarò sempre ricordato come il giornalista che ha intervistato per primo Steven Bradbury, al termine della gara più folle di sempre.
https://www.youtube.com/watch?v=ONGYoUY6UhI
La storia la sapete. Olimpiadi Invernali di Salt Lake City, 2002: si assegnano le medaglie per i 1.000 metri di pattinaggio short track. Il ventinovenne australiano è in finale quasi per caso: la sua ultima medaglia importante risale a Lillehammer 1994 (bronzo nella staffetta 5.000 metri) e da allora ne ha passate di ogni. Subito dopo i Giochi norvegesi si scontra in gara con l’italiano Mirko Vuillermin, il cui pattino gli recide l’arteria femorale. Per qualche ora rischia addirittura la morte: perde oltre quattro litri di sangue, servono 111 punti di sutura e un anno e mezzo di riabilitazione, e quando torna alle competizioni non è più lo stesso. Come se non bastasse, nel 2000 si frattura il collo in allenamento ed è costretto ad indossare per un mese e mezzo un tutore ortopedico.
Ma Bradbury vuole a tutti i costi le sue ultime Olimpiadi e, come detto, ci arriva. Per onor di firma, o quasi: chiude infatti terzo la sua batteria eliminatoria ed è subito fuori. Anzi no, perché la squalifica del canadese Marc Gagnon gli permette di essere ripescato per la semifinale. Dove l’epilogo è il medesimo: Kim Dong-Sung, Mathieu Turcotte e Li Jiajun cadono, il vincitore Satoru Terao viene squalificato e l’australiano si ritrova in finale contro ogni pronostico.
Ed è qui che entro in scena io. Sono semplicemente il primo a ritornare alla realtà, mentre l’intero palazzetto si sta ancora chiedendo se è vero ciò che ha visto. Lo bracco letteralmente e gli punto il microfono sul grugno, mentre Romualdo il cameraman stringe il primo piano. Ha la stessa espressione di Vincent Vega dopo che è passato dal pusher di fiducia. E’ uscito dal suo corpo e si riguarda la scena, fotogramma per fotogramma.
Ultimo giro. Bradbury è staccatissimo dal quartetto che si contende il podio: Apolo Ohno, Ahn Hyun-Soo, Mathieu Turcotte e Li Jiajun. Quasi una curva di ritardo, un’enormità su una pista che misura poco più di 100 metri. E’ l’ultimissima corda, si trasforma in una fejoada. I quattro davanti si scontrano, scivolano, si aggrovigliano tra le barriere. L’australiano taglia per primo il traguardo: è medaglia d’oro. Il primo atleta dell’emisfero Sud a vincere una gara olimpica invernale. “Pulling a Bradbury” diventa immediatamente un’espressione universale per sintetizzare concetti del tipo “vincere un qualcosa partendo come il più sfavorito degli sfavoriti”.
Quando Antonio e Paolo mi hanno chiesto di raccontare il mio vino “odioso ed odiato”, non ho potuto fare a meno di ripensare a quel pomeriggio di 14 anni fa. E alla ridicola mistificazione morale che seguì. Il “perdente” che si ritrova sul tetto del mondo, la classica favola a lieto fine da raccontare ai bambini per insegnargli che “vale sempre la pena di inseguire i propri sogni, che non bisogna mollare mai, che non è finita finché non è finita, e bla e bla e bla”. Ma non per me. Che ignobile menzogna. La storia di Bradbury dice una cosa completamente diversa, e basta rileggere le prime parole estortegli dal sottoscritto per rendersene conto:
«Obviously I wasn’t the fastest skater. I don’t think I’ll take the medal as the minute-and-a-half of the race I actually won. I’ll take it as the last decade of the hard slog I put in». [1]
E ancora:
«I was the oldest bloke in the field and I knew that, skating four races back to back, I wasn’t going to have any petrol left in the tank. So there was no point in getting there and mixing it up because I was going to be in last place anyway. So I figured I might as well stay out of the way and be in last place and hope that some people get tangled up». [2]
Altro che combattere fino all’ultimo respiro, è incrociare le dita sperando in un aiuto divino, tipo Apollo davanti alle mura di Troia. L’antisport. Ecco come ho scelto il mio hateful wine. Io ODIO Steven Bradbury e quelli come lui. Ma ancora di più detesto quelli che gli permettono, ai tanti Steven Bradbury che tutti noi incontriamo nella nostra vita, di raccogliere ciò che non meritano grazie a tattiche sciacallesche. Se un Bradbury vince, vuol dire che c’è un alter ego che si è spinto troppo in là, che non si è accontentato di portare a casa il risultato, che si è preso rischi anche quando probabilmente non servivano. Di là uno che sceglie deliberatamente di sottrarsi all’agone, di qua uno che sente di potersi realizzare a pieno solo attraverso la dominanza. Li chiamiamo pionieri, esploratori, avventurieri, e rimuoviamo sistematicamente tutto ciò che a che fare con forme di disagio interiore. Con la difficoltà di trovare pace senza nuove Colonne d’Ercole da valicare. Con l’inquietudine che li attanaglia non appena si è compiuto un percorso.
Il primo vino italiano che mi viene in mente quando ragiono sul profilo dei migliori, inconsapevoli, alleati bradburyani è sicuramente il Breg Bianco di Josko Gravner. O meglio, quello che col nuovo millennio annunciava un prima e un dopo nella storia della cantina di Oslavia, Collio Goriziano. Un diario meditativo allo stato liquido, più che una semplice bottiglia. In cui confluivano tutte le riflessioni scaturite dal viaggio tra le vigne della Georgia e del Caucaso. Ovvero i luoghi che battezzarono la viticoltura indoeuropea. Alle pendici del monte Ararat, dove secondo la tradizione biblica si arenò, dopo il diluvio universale, l’Arca costruita da Noè, primo vigneron della storia. [3]
Forzando ma non troppo, lo Josko Gravner che era partito non fu lo stesso che ne tornò. Come uomo, forse, come produttore sicuramente. Recuperare le radici ancestrali e profonde del fare vino diventava la questione in assoluto più importante: rispetto dei suoli, equilibrio dell’ecosistema, ritmi energetici e fasi lunari a guidare il lavoro in vigna e in cantina, prima di qualsiasi protocollo tecnico. Via i serbatoi di acciaio inox e le barrique, dentro le anfore di terracotta, alla vendemmia fermentazioni spontanee e macerazioni sulle bucce anche per le uve a bacca bianca, niente chiarifiche o filtrazioni.
Un vero e proprio shock per l’intera comunità di bevitori. Che non avrebbero più cercato ad Oslavia i migliori chardonnay e sauvignon di stile “francese” mai prodotti in Italia (e chi ha assaggiato i ’91, gli ’88 o gli ’85 sa di cosa parlo). Ma soprattutto uno squarcio nel buio, una frattura filosofica e produttiva nel momento teoricamente meno adatto. Proposta mica da uno qualunque, appunto, ma da un interprete portato trasversalmente ad esempio del meglio che l’Italia del vino potesse offrire. Così avanti, o indietro, da richiedere anni per una narrazione convincente e perfino per una grammatica descrittiva. Che cos’erano e cosa volevano incarnare nel bicchiere i nuovi Breg e Ribolla Gialla lo capivano in pochi. E non sono tanti di più quelli che lo comprendono oggi: i dibattiti sul “naturale” sono successivi alla conversione gravneriana e non è un caso che Josko vi sia sempre sottratto.
Non è mai importato nulla di vincere o perdere, all’artigiano goriziano, ed è per questo che ce l’ho con lui. Quanti Bradbury gli si sono messi in scia, sperando che andasse a sbattere. Portandosi a casa medaglie che non avrebbero visto nemmeno col cannocchiale. Sostituite short track con orange wines e vedete che lo sport non cambia: si parte in pochi, la pista è stretta, può accadere di tutto. Tipo che basti autodefinirsi in un certo modo per conquistare uno spazio franco, dove vale tutto. Dove può trionfare l’indistinto. Dove non è necessariamente un “problema” se le differenze si diluiscono fino a sparire, poiché conta prima di tutto occupare una casella. Poi si vedrà. Intanto prendiamo le anfore, maceriamo quello che abbiamo, vediamo che ne salta fuori, si dicono i Bradbury. Quantomeno qualcuno che fa il tifo per loro si trova sempre.
[1] «Ovviamente non ero il pattinatore più veloce. Non penso di aver preso la medaglia per il minuto e mezzo della gara che ho vinto, ma per il lavoraccio fatto nell’ultimo decennio»
[2] «Ero il più vecchio sul campo e sapevo che, dopo aver corso quattro gare una dietro all’altra, non avevo più benzina nel serbatoio. Non c’era motivo dunque di buttarmi nella mischia, sarei arrivato ultimo in ogni caso. Così ho immaginato di giocarmela rimanendo in ultima posizione e sperando che qualcuno potesse rimanere invischiato»
[3] «Ora Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna. Avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua tenda» (Genesi 9, 20-21).
* videogiornalista sportivo, enogastronomo nonché mentore di Elisabetta Caporale