Se ne parlava l’altro giorno tra un cazzeggio e un altro: quanto può considerarsi credibile un assaggiatore che rivendica ogni due per tre presunte scoperte e primogeniture, ma dimentica sistematicamente le sue cantonate e minzioni extra vaso?
Per carità, i meccanismi di rimozione sono vecchi quanto il mondo e in qualche modo inevitabili per chi è professionalmente chiamato a scendere ogni giorno nella fossa dei leoni (leggi produttori, operatori e appassionati di tutti i tipi) e sa di poterlo fare solo con una solida corazza di autostima. E però capisco il gioco fino a un certo punto, a maggior ragione se diamo per assodato – come sembra – che il giornalismo enoico sia tutto fuorché una scienza esatta. Che procede per sua natura attraverso approssimazioni e soggettivismi, impressioni interlocutorie e tentativi di previsione, da aggiustare in continuazione alla luce di prove e controprove, verifiche empiriche, evoluzioni estetiche, e così via.
Da lettore tendo a fidarmi molto poco di chi non si prende mai la briga di revisionare in maniera obiettiva i propri precedenti lavori, testi, consigli o valutazioni che siano. Non tanto per la necessità di darsi del bravo o del tonto, non è questo il busillis, ma perché a mio avviso l’autorevolezza si raggiunge nel lungo periodo prima di tutto con un patto di onestà intellettuale tra interlocutori. E non è un caso, per me, che la critica anglo-sassone mainstream – quella che realmente sposta mercati e fatturati – abbia sempre riservato un’attenzione particolare a questi aspetti, proponendo gli stessi punteggi come indicazioni mobili da tarare nel tempo.
Mi pare evidente come siano rimasti in pochi a credere ancora nel guru-santone infallibile, un po’ in tutti i settori e ancor di più nel vino. Eppure le pose da giudici-oracoli permangono in buona parte degli eno-narratori italici, presenti inclusi ovviamente. Anche in questo caso i motivi sono facili da individuare: in un’era di overload informativo come la nostra, sembra quasi impossibile farsi ascoltare senza alzare il volume e il tono del racconto. E’ così che ogni degustazione può diventare “la più grande di tutti i tempi”, il vino X “il migliore degli ultimi vent’anni”, la bottiglia Y “la più emozionante dell’anno”, eccetera eccetera. La dittatura dell’eccellenza, o presunta tale, che a conti fatti si ritrova completamente annacquata e svuotata di senso, nel momento in cui si attribuisce valore assoluto a qualcosa con tanta frequenza e leggerezza, abbassando costantemente l’asticella e ingigantendo i livelli di autoreferenzialità.
Come dicevo non ci provo neanche a tirarmi fuori, e però sono contento di temere molto meno di altre cose la resa dei conti con le mie castronerie. Non dico che provo piacere nel dover ammettere la cazzata, ma è un processo che nella pratica determina molti più vantaggi che penalizzazioni. Innanzitutto perché impari da compratore a spendere sempre meglio i tuoi soldi, e poi perché da professionista una documentazione ben aggiornata – cantonate comprese – aiuta a costruire un significativo gap competitivo. Conviene in primo luogo a me, insomma, ritornare ogni tanto su qualche pseudo-sentenza disseminata per strada, cercando di capire se dietro ci fosse sostanza o meno.
Non basterebbe un unico post per elencare tutti gli abbagli presi in poco meno di tre lustri da operaio della comunicazione enoica. Può essere frustrante, ma è una sensazione totalmente compensata dalla soddisfazione provata quando invece certe indicazioni si confermano o addirittura si rafforzano. Proprio come mi è capitato l’altra sera, salutando l’ultima bottiglia presente in cantina del Getis 2007 di Reale, tra le mie aziende preferite della Costa d’Amalfi, con particolare riferimento alla sottozona Tramonti.
Il “miglior rosato campano per carattere e costanza” (ecco, appunto), l’ho usata spesso questa perifrasi per riferirmi al Getis. E oggi ne sono più convinto che mai: è un uvaggio a maggioranza piedirosso con saldo di tintore, che regolarmente colpisce per il suo connubio di golosità e nerbo, tempra marina e scheletro terragno, come ci si attende da queste terrazze a picco sulla costa e strappate alla roccia. Un vino che oltretutto dimostra di tenere con sorprendente affidabilità nel tempo, perfino con versioni generate da annate più calde e asciutte, teoricamente di più rapida evoluzione.
E invece no: già in un paio di occasioni le verticali complete dal 2004 ad oggi hanno evidenziato belle prove d’insieme, ciascun millesimo con la sua declinazione, e ulteriori spunti arrivano dal riassaggio del 2007. A dir poco autorevole per integrità, fittezza, equilibrio, ha una veste più da “cerasuolo” che da classico rosatello di mare: un po’ è lo stile cercato, un po’ la vendemmia assolata, ma non c’è traccia di stanchezza nello sviluppo aromatico e gustativo.
Se ne avete, stappatelo con un piattone di polipetti alla luciana e poi tornate qui a spiegarci come è fatto il paradiso.