E’ di nuovo tempo di guide dei vini. O meglio, della fase editorialmente più calda, quella in cui vengono effettuati gli assaggi “ufficiali”, si delinea il timone di aziende inserite in pubblicazione e si selezionano le bottiglie candidate ai vari premi. Nel nostro caso i Tre Bicchieri di Gambero Rosso, che comincia il lavoro per l’edizione 2016 di Vini d’Italia come di consueto da Montalcino.
Mi trovo ad affiancare dal 2012 la curatrice Eleonora Guerini nelle ricognizioni sulla zona, ma nella mia testa sembra passato molto più tempo. Il fatto è che tante cose sono accadute in questo quadriennio nel borgo del Brunello, con una rapidità e un’intensità tali da lasciare per molti versi storditi. I numeri non mentono: nessun’altra area vinicola italiana è cresciuta come Montalcino nell’ultimo lustro quanto a valore e redditività delle vigne. Un ettaro iscritto a Brunello può quotare fino ad un milione di euro, per un litro di sfuso servono ormai stabilmente 10-12 euro, con punte vicine ai 15 dopo l’exploit dell’annata 2010 (e nemmeno il Rosso se la passa male, con i suoi 4-5 euro al litro).
Mai come in questa occasione ci siamo interrogati sul senso del nostro lavoro guidaiolo: usciremo ad ottobre con le valutazioni attribuite a vini esauriti nelle cantine ormai da mesi. Sono bastati gli entusiastici report di James Suckling e di Monica Larner (Wine Advocate) per scatenare una vera e propria caccia al tesoro, specialmente oltreoceano. Una reazione a catena che personalmente non avevo mai osservato in prima persona, perlomeno non a questo livello: in mezzo pomeriggio sono più che raddoppiati i prezzi finali dei 100/100 Parker (Tenuta Nuova di Casanova di Neri e Madonna delle Grazie de Il Marroneto), ma la domanda di Brunello 2010 ha travolto l’intera produzione, comprese le realtà più lontane dai riflettori mainstream.
Un fenomeno del genere non può essere spiegato semplicemente con le indicazioni del bicchiere. Gli ultimi assaggi hanno in larga parte confermato le impressioni già condivise su questi schermi dopo l’ultima edizione di Benvenuto Brunello (link): è una grande annata per le migliori riuscite, ma alla fine della fiera la media qualitativa è del tutto sovrapponibile a quella di vendemmie assai più “normali”. Nonostante le favorevoli premesse climatiche ed agronomiche, i 2010 da stappare subito o da conservare in cantina non possono essere pescati a casaccio, a maggior ragione se si pensa che per due casse di Brunello bisogna mettere in conto mezzo stipendio di un appassionato medio. Quelli buoni lo sono per davvero, tengono insieme la freschezza, la linfa e il sapore delle annate importanti, ma abbassando appena l’asticella si incontrano tanti vini fondamentalmente trascurabili, per limiti stilistici ancor prima che strutturali.
Il millesimo da solo non fa miracoli, insomma, se non ci sono interpreti disposti in qualche modo a rischiare, ad andare oltre, a non accontentarsi del miglior risultato col minimo sforzo. Vale per i territori cosiddetti emergenti, ma ancora di più per quelli pienamente affermati, che riescono con la sola forza del nome (e di un hype vendemmiale) a generare afflussi di capitali e ricchezza. E’ il rischio maggiore che corre Montalcino in questo momento, come distretto produttivo ma anche e soprattutto nella sua tessitura sociale. Perché si sta allargando a dismisura la forbice tra chi ha terra e chi non ne ha, tra chi può massimizzare i margini con la trasformazione e la commercializzazione, e chi entra nella filiera in posizione subordinata o laterale. Perché il borgo ilcinese è ormai noto in tutto il mondo, eppure non riesce ancora ad innescare un circolo virtuoso che porti benefici all’intera comunità. Perché Montalcino non ha di fatto un hotel degno di questo nome, non c’è praticamente modo di muoversi se non con mezzi propri, mangiare costa solitamente caro e anche carissimo rispetto al tipo di proposta gastronomica, e quando si fa buio diventa quasi un’impresa trovare un locale aperto.
A volte ho come l’impressione che da queste parti non ci si capaciti ancora per quello che è accaduto in poco più di trent’anni. E’ una storia che parte da lontano, siamo tutti d’accordo, ma vale sempre la pena di ricordare come la Montalcino degli anni ’50 fosse uno dei comuni più poveri d’Italia per reddito pro-capite. Oggi che lo scenario si è completamente ribaltato, nelle parole dei produttori si coglie il più che comprensibile desiderio di godersi il momento, senza stare troppo a pensare a quel che sarà. Forse è per questo che gli effetti del boom viticolo e commerciale si palesano così poco agli occhi di un viaggiatore occasionale: il paese del Brunello appare come cristallizzato nella sua dimensione quotidiana, mentre tutto cambia intorno, a partire dai ripetuti passaggi di mano di aziende anche storiche, spesso acquisite da gruppi provenienti da fuori.
Viene da chiedersi quanto possano crescere ancora le azioni del vino montalcinese e quali prospettive temporali di rientro immagini un investitore veneto o brasiliano che rileva oggi per 5-10 milioni di euro una piccola cantina da pochi ettari. Il fenomeno planetario Brunello sembra mettere al riparo da qualsiasi ipotesi di deflazione traumatica, ma da semplici consumatori si possono fare anche considerazioni diverse. Detta in linguaggio calcistico, a volte penso che Montalcino sia una grande società prima ancora che una grande squadra. Che riesce a giocarsi le sue chance mondiali senza avere necessariamente in rosa un numero di fuoriclasse assoluti paragonabile a quello di altre zone. Più forte il collettivo dei singoli, mi pare, anche in considerazione delle vicende che hanno per varie ragioni ridisegnato negli ultimi anni il profilo di realtà leader come Biondi Santi, Soldera e Poggio di Sotto.
Se avessi budget e spazi illimitati, insomma, sicuramente metterei ogni anno in cantina un buon numero di Brunello (e di Rosso: a proposito, tra i 2013 c’è parecchia roba “sfiziosa”, specie in ottica mescita). Ma nel mio mondo reale sono spesso costretto a fare delle scelte severe e a Montalcino finisco per comprare relativamente poco. Perché, detto brutalmente, ritengo che molti di questi vini non valgano il prezzo che costano. Se devo spendere 40-50 euro o più, non posso accontentarmi di un rosso tipico-ottimo: cerco e forse pretendo una grande bottiglia, espressivamente completa e autorevole, in grado di evolvere senza patemi. Ce ne sono naturalmente, ma da una denominazione così on fire me ne aspetterei molti di più.
Pur avendo messo da parte a mo’ di formichina un piccolo salvadanaio destinato alle scorte di Brunello 2010, nel momento clou ho speso meno del preventivato. Cinque referenze e una ventina di bottiglie totali, non di più, mentre dalle Langhe ero tornato con oltre 15 etichette diverse e un centinaio di Barolo e Barbaresco 2010. Non credo interessi a qualcuno, ma sono sempre più convinto che il racconto critico passi anche attraverso dati concreti come i movimenti e l’estratto conto di un bevitore precario. E mi piacerebbe tanto sentire la vostra al riguardo.