
Ci ha già provato Antonio a spiegare perché amiamo visceralmente il Poulsard, e in particolare quello di Pierre Overnoy (link). Non so aggiungere niente di significativo al riguardo, se non qualche dato sui tempi di fruizione dell’ultimo 2011 stappato.
Cinque bottiglie già svuotate, tre commensali ancora beventi, sette minuti e trentadue secondi cronometrati dalla rottura della ceralacca alla dipartita dell’ultima goccia. «Boh, neanche sembra vino, lo vedo più come una bevanda psichedelica»: non ricordo chi l’ha detto, ma mi pare che in questa sintesi ci sia più di un fondo di verità. E’ genere di conforto, più che liquido da vivisezionare e gerarchizzare. E penso solo di fargli un torto rifugiandomi nella litania di mele e percoche, umori selvatici e prati di montagna, ginger e bucce di agrumi. Perché non c’è il minimo ordine, nella sequenza aromatica come nel ritmo del sorso, e puoi morire di vecchiaia se cerchi di tirarne fuori una chiave descrittiva e valutativa in qualche modo sensata. Cavatappi e condivisione con i tuoi simili, fine della storia: gente all’ultimo stadio, che almeno ogni tanto ha bisogno di vuoti cromatici da riempire con tinte proprie, inedite o forse solo dimenticate.
Scelgo come pantone il rosa giocondo e florido disegnato sul volto del vecchio Pierre, che blitza all’improvviso nella sala dove il figlioccio Emmanuel Houillon sta tenendo a bada una decina di assetati con una verticale dello Chardonnay ouillé di casa (ceralacca verde, mica pretendete che ci sia scritto sull’etichetta…). Giapponesi e umbri, americani e irpini, norvegesi e montefredanesi: alla seconda bottiglia siamo già comunità e, al suo apparire, scattiamo in piedi con una tale sincronia da farla sembrare coreografia lungamente provata in allenamento. Il buon Overnoy si gode la standing ovation e si chiede probabilmente per la miliardesima volta che ci fa tutta questa strana gente insieme a Pupillin, quattro case che non possono chiamarsi paese, e nemmeno frazione a dirla tutta.
Gli stringo la mano e gli faccio un’unica domanda: «Quale dei tuoi vini bevi più spesso?» E lui: «Il Poulsard, naturalmente»
Non devo neanche chiedergli il perché, mi anticipa col tempo dei grandi: «E’ il rosso più bianco o il bianco più rosso, se preferisci. E la vita è esattamente così: mentre cerchi di dargli un nome, è bella che passata, come una buona bottiglia». Sorride ancora, prende sotto braccio la sua “fidanzata” ed esce di scena, tra gli applausi di giapponesi e umbri, americani e irpini, norvegesi e montefredanesi.