La Rustìa 2010 Orsolani: l’Erbaluce del vicino è sempre il più verde

Orsolani - La Rustia '10

«Non abbiamo nulla da invidiare ai francesi, i nostri vini sono più buoni, loro sono più bravi nel marketing».

Non so quante volte l’ho sentita questa frase in consessi pubblici, regolarmente seguita da uno scroscio di applausi. In quei momenti, lo confesso, ho più volte desiderato una breve sospensione dei diritti civili: giusto il tempo di imbracciare mi fusil de preciçiòn e… bang!, un colpo dritto in fronte al capopopolo di turno. Prima di passare naturalmente ad analogo trattamento per tutti gli astanti in delirio. Sono un essere schifoso, lo so, non c’è bisogno di ribadirlo con commenti di protesta, che saranno immediatamente rimossi alla luce di quel cliché sopravvalutato che è la libertà di parola.
Detto questo, un fondo di verità c’è perfino nelle fesserie qualunquiste. E mi viene spesso da pensarci quando mi capita tra le mani una bella bottiglia di Erbaluce di Caluso, come il La Rustìa 2010 di Orsolani stappato ieri sera. E’ una tipologia sottovalutata, o comunque non valorizzata come meriterebbe, ne sono sempre più convinto. Le grandi emozioni sono arrivate dai vecchi Passiti di Vittorio Boratto-Ferrando e del Cavalier Gnavi, ma anche le versioni ferme-secche mi hanno fatto spesso rispondere sì alla domanda: «c’è un buon motivo per stappare questo vino?»
Quando ho voglia di un bianco delicato ma non necessariamente neutro, primaverile nel senso più bello del termine con i fiori e le erbe di campo, il polline, le scorzette di agrumi. Quando l’ugola è pronta ad accogliere un sorso leggero, senza rinunciare a nerbo salino e articolazione espressiva. Guardo dall’altro lato delle Alpi e mi accorgo che non ce ne sono poi tante di opzioni così. Ché ci eccitiamo, legittimamente, quando riceviamo la mail che annuncia il nuovo gruppo d’acquisto a tema Muscadet, Savoia o Côte Chalonnaise, ma rischiamo di trascurare tipologie assai più a portata di mano, che parlano grossomodo la stessa lingua a tavola.
E poco importa se bisogna fare lo slalom tra una serie di vini “tecnici”, imbrigliati dalla confezione e dal malcelato desiderio di essere qualcos’altro. Alla fine, dico tra me e me, non mi servono cinquanta “grandi” Erbaluce: con quelli di Orsolani, Benito e Camillo Favaro, Cieck e Podere Macellio-Renato Bianco sono già abbondantemente a posto. Li pago quasi tutti meno di 10 euro, non mi viene l’ansia se ne dimentico qualcuno in cantina per 4-5 anni e quando li stappo ricevo esattamente ciò che mi aspetto, ciascuno con la propria chiave territoriale e stilistica.
https://www.youtube.com/watch?v=RbO89SDmEyI
Sono meccanismi che naturalmente non riguardano soltanto le colline moreniche calusiesi. Com’è ovvio che dietro ogni “sottovalutazione” ci sono sempre motivazioni riconducibili a qualcosa di un po’ più concreto del destino cinico e baro. Il fatto è che, contrariamente a quanto sostengono tanti addetti ai lavori e appassionati, una buona comunicazione è più che mai decisiva per chi fa e vende vino. Individuale o collettiva, orale o scritta, generalista o specializzata, orizzontale o guidata, non importa: se quelle bottiglie non si trasformano in una storia, continuamente raccontata ed evocata, si finisce immediatamente nel mare magnum indistinguibile dei prodotti “solo” buoni.
Rispetto a dieci-venti anni fa è certamente più facile per un piccolo contadino di una valle sperduta far sapere al mondo che esiste. Ma forse il problema è proprio questo: ci si scopre parte integrante dell’offerta e ci si illude che il più sia fatto. Quando invece è lì che arriva il difficile: ritagliarsi uno spazio di attenzione e senso tra infinite opzioni, spesso vicine per valore qualitativo, in un mercato che è sempre più segmentato e classista. Il marketing della normalità forse non ha mai pagato, e di sicuro non paga adesso. Perché da una parte si beve sempre meno in Europa e dall’altra chi sceglie una bottiglia fa un investimento tanto economico quanto affettivo. Si consuma e si giudica molto prima che i bicchieri si riempiano, insomma, e chi non è in grado di inserirsi da protagonista in questo flusso avrà molte meno chance di ripagare al cento per centro i suoi sforzi.
Siamo nel cuore di una delicatissima fase di cambiamento per l’intero sistema viticolo e produttivo del vino mediterraneo. E rischiamo davvero non solo di perdere per strada dei pezzi molto importanti della nostra cultura enoica, ma al tempo stesso di veder paradossalmente ridimensionate le possibilità di scelta. Delle due l’una: o accettiamo definitivamente l’idea che il vino sia fondamentalmente un bene di lusso e che siamo quindi fortunati se possiamo concederci una bella bottiglia ogni tanto. Oppure ci convinciamo del fatto che in una società con la nostra storia e tradizione, il vino non potrà mai abbandonare del tutto la propria dimensione quotidiana e popolare. In entrambi i casi c’è un’unica soluzione possibile per chi come noi è chiamato ad alimentare questa folle passione con budget limitati e temporalmente imprevedibili. Cercare le storie, certo, ma senza dimenticarsi del bicchiere e del peso specifico di ogni euro necessario all’approvvigionamento.

19 October 2008: Allegri head coach of Cagliari in action during the Italian Serie A 7th round match played between Torino and Cagliari at Olympic Stadium in Torino. © Valerio Pennicino / GRAZIANERI
Crediti foto: Valerio Pennicino / GRAZIANERI – www.soccerrise.com

Per ogni etichetta riconosciuta “grande” dal mercato globale, dobbiamo tenere immediatamente pronta un’alternativa. Perché bisogna avere gli occhi foderati di prosciutto per non accorgersi che siamo ormai in tutto e per tutto colonia per i paesi più ricchi. Né più né meno quello che accade a livello calcistico: quando esplodono, i Cavani, i Sanchez, i Thiago Silva vanno a giocare in Spagna, in Francia, in Inghilterra. Ed è normale, perché solo in rari casi le società italiane possono permettersi i loro stipendi e le plusvalenze servono come l’aria a dare ossigeno a bilanci ballerini. E’ il destino delle cose belle e rare, come il talento: acquisiscono esponenzialmente valore e finiscono naturalmente dove c’è più potere d’acquisto, esattamente come i Conterno, i Giacosa e i Biondi Santi prendono molto più facilmente la strada dell’Asia e dell’America del Nord.
Solo chi riesce a scovare il futuro campione ce la fa a rimanere competitivo con fatturati inferiori, magari costruendo un vivaio di fuoriclasse fatti in casa che un domani ingolosiranno il Manchester United, il Paris-Saint-Germain o il Real Madrid di turno. Nel nostro piccolo siamo anche noi manager chiamati ad allestire periodicamente squadre attrezzate per un soddisfacente campionato enoico. E sono convinto che le opportunità ci siano, a patto di tenere costantemente le antenne drizzate anche su zone che oggi ci permettiamo in qualche modo di snobbare. La necessità aguzza l’ingegno e senza un incessante lavoro di scouting si finisce come bambini incollati alle vetrine natalizie, a sognare il giocattolo che forse non avranno mai.
Può essere molto faticoso e frustrante, ma vuoi mettere la soddisfazione di potersi sedere almeno una tantum in un ristorante stellato con dieci euro nel portafogli? Per Antonio Conte era uno scenario impossibile e la scorsa estate se ne andò dalla Juve sbattendo la porta, Massimiliano Allegri si è preso gli insulti preventivi e ha dimostrato che le favole esistono ancora: il 6 giugno è vicino e da milanista (anche se molto sui generis) sarò davanti allo schermo a tifare per Tevez e compagni (e non credete che incida su questo la prospettiva di fantasmagoriche bevute sponsorizzate dagli amici zebrati in caso di lieto fine). Una rondine non fa primavera, siamo d’accordo, ma è altrettanto vero che la magia del calcio è in buona parte plasmata proprio dalla sua insondabile imprevedibilità. Le regole del vino, e della vita, non sono tanto diverse e mi accorgo a quasi quarant’anni di poter forse fare a meno di un liquido da 100 punti, ma non del viaggio che spinge eternamente alla sua ricerca. Perché la natura non è democratica, è fin troppo evidente, ma davanti alla bellezza di un campione che sboccia siamo tutti meravigliosamente uguali.

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