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Il pepe del Pelaverga

Oggi è assolutamente demodé, da evitare con cura se si vuole partecipare al gran ballo degli enofighi, eppure, quando ho cominciato col vino, snocciolare il rosario dei riconoscimenti era cosa buona e giusta.

Quasi un obbligo, a dirla tutta; tanto che i docenti, nei vari corsi, passavano un bel po’ di tempo col malcapitato di turno che, proprio no, quel profumo di pipì di gatto non riusciva in nessun modo a sentirlo.
All’inizio è così, sembra assurdo cercare tutta quella roba in un bicchiere. Le diverse sensazioni appaiono difficili da associare a qualcosa di conosciuto e peggio ancora da districare. Poi, pian piano, tutto si fa più nitido e le cose si svelano per quello che sono: molto più semplici di quanto si possa immaginare all’inizio.
Detto questo, non nego di aver pensato anch’io di non farcela, di non riuscire proprio a sentire quella refola di violetta che il tizio vestito di nero continuava a ripetere durante il mio primo corso di degustazione.
Come sempre nella vita,  c’è però un preciso momento che cambia il corso degli eventi e apre scenari nuovi, inimmaginabili fino a un attimo prima. A me è successo con l’inequivocabile timbrica di foglia di pomodoro di un Sauvignon italico, credo fosse il Sanct Valentin di S. Michele Appiano*, e con la delicata e diffusa coltre speziata di un vino rosso piemontese di cui ignoravo l’esistenza, finché un generoso sommelier di Saluzzo, in un Salone del Gusto di mille anni fa, non me l’ha messo sotto il naso.
Il vino in questione era il Verduno Pelaverga di una cantina che non ricordo; più che sufficiente, però, a spalancare un’altra finestra sulla mia conoscenza della materia e blindare la tipologia tra quelle del cuore.
Solo romanticismo? Una semplice infatuazione giovanile? Non direi. Considero il Pelaverga, che da allora frequento gioiosamente, uno dei vini più originali, gustosi e divertenti d’Italia. Poco noto ai più, ha una storia antica che affonda le radici nella leggenda (con risvolti anche piuttosto piccanti…). Certo, esce a fatica dai confini di produzione, realizzato com’è da una decina di cantine, capaci di garantire la risibile tiratura annua di circa 150 mila bottiglie.
Rientra tra i vini da bere senza troppi pensieri, per stile e per prezzo, ma ha una veste davvero personale, mai banale e per questo decisamente distintiva. Da giovane ha profumi di fiori e piccoli frutti rossi, attraversati da particolarissime folate di pepe bianco. In bocca è succoso, fresco, coerente, con la componente speziata sempre in mostra.
Tra i miei preferiti quelli di Castello di Verduno*, Burlotto* e Fratelli Alessandria*. Il 2013 di quest’ultima cantina mi è sembrato delizioso. Da provare, magari durante una gita in quel magnifico fazzoletto di Langa.

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