Nell’evoluzione delle tendenze che hanno caratterizzato la storia recente del vino, quello che è accaduto in Champagne ha del paradigmatico e forse è per questo che se ne è parlato così tanto.
A parte alcuni casi isolati, la denominazione più celebre del pianeta è stata da sempre più vicina ai concetti di griffe, rappresentate dalle grandi maison, che a quelli di cru e terroir, di cui si sono invece nutrite in abbondanza le altre zone vinicole francesi.
Fino a qualche anno fa, appunto, visto che improvvisamente una schiera di piccoli vigneron si è messa a confezionare e imbottigliare i propri vini, moltiplicando i marchi della regione e rivelando una mappa articolata di zone, sottozone e territori. Che certamente esistevano ma di cui pochi si erano curati fino in fondo.
Un nuovo modello, quello definito dai vignerons champenois, perfetto per le aspettative e i nuovi gusti degli appassionati, anche italiani, di colpo indirizzati alla ricerca di carattere, autenticità, artigianalità e aderenza territoriale.
Un modello capace di fotografare i cru e i millesimi in modo più chiaro, svelando una complessità sconosciuta, anche per via dell’uso meno scolastico del concetto di cuvée e di un progressivo ripensamento delle liqueur, con dosaggi meno pronunciati e più rispettosi dell’espressività dei vini.
Un movimento benefico, credo, anche per i grandi brand della regione, incalzati da questi nuovi modelli e capaci di recepirne gli aspetti positivi, a partire proprio dall’equilibrio del maquillage (mai visti tanti pas dosè come negli ultimi anni).
Certo, come tutti i movimenti, anche questo ha conosciuto tantissime variazioni sul tema, scatti in avanti e ripensamenti, interpreti moderati e veri e propri estremisti. Larmandier-Bernier, credo si possa dire, è uno di quelli ad aver interpretato il tutto in maniera radicale, sfornando una serie di Champagne verticali, dalle acidità sferzanti, certamente puri, minerali e senza orpelli ma anche piuttosto cerebrali e avari di ammiccamenti.
Champagne deliziosi, per come la vedo io, veri paradigmi dei Grand Cru in cui si trovano le vigne di proprietà (Cramant, Choully, Oger, Avize e il Premier Cru Vertus) e di un’idea di vino in sottrazione, essenziale, anche se densa dei sapori di alcune parcelle meravigliose.
Champagne di cui mi sono innamorato nella fase di indagine tumultuosa, iniziale, alla scoperta dei nuovi percorsi della denominazione. Quella della ricerca ossessiva di vini originali e diversi, fuori dalle rotte conosciute e in un certo senso “classiche”. Lo stesso Larmandier-Bernier che ho poi abbandonato, quando l’iniziale entusiasmo per quegli schiaffi si è tramutato in voglia di qualche carezza.
Sia come sia, era da un po’ che non incrociavo un bicchiere di Pierre Larmandier e il nuovo incontro è stato sorprendente. Si, insomma, il Blanc de Blancs Longitude mi ha regalato una sfumatura nuova dello stile maison.
Non che non sia un vino puro, tutt’altro. Non che non sia attraversato da quella spina dorsale acida, precisa, puntuale, a tratti irriverente che ne definisce le coordinate e che pare un inequivocabile marchio di fabbrica. Non che non abbia le solite vibrazioni minerali. C’è tutto questo, ovviamente, ma c’è anche un filo di equilibrio in più. Almeno rispetto a quel che ricordavo.
Di fatto uno Champagne stupendo, figlio dell’idea del produttore e della sua terra, di una tendenza tutt’altro che statica che, evidentemente, sa trovare evoluzioni inaspettate, dettagli e nuove strade da percorrere.