BarDelli 1324

In perfetta linea con lo stile editoriale di sempre, ecco un primo post targato 2013 del tutto inutile e autoreferenziale, con ogni probabilità incomprensibile a quei pochi presenti alla serata che vado raccontando, figuriamoci a tutti gli altri.

Così va il mondo sul web di questi tempi: un vorticoso chiacchiericcio che mette in primo piano il soggetto e usa l’oggetto come lente d’ingrandimento. L’esatto opposto di quanto si dovrebbe fare, e infatti solo un folle prenderebbe questo sito come cesto di notizie sensate cui attingere (noi ne siamo consapevoli); altra faccenda è chi usa informazioni personali o esperienze occasionali messe a casaccio e pretende di fare comunicazione.
Bene, ingoiata l’ennesima pillola di saggezza non richiesta, andiamo alla cronistoria di una nuova tappa del BarDelli (qui la prima e la seconda), una specie di movimento dadaista applicato ai cibi e ai vini, incapace della seppur minima prevedibilità, orgogliosamente eversivo, semilclandestino, con regole che solo il suo promotore (forse) può comprendere.
In onore ai suoi principi politicamente scorretti, l’ultimo BarDelli prendeva il nome di 1324, riferendosi ai chilometri da cui proveniva la materia prima della cena; per la precisione quelli che separano il luogo dell’evento da Tarragona, sede di Balfegò*, e dal mirabolante tonno rosso che ha scandito tutti i piatti.
Ora, a dirla tutta, questo tonno così “scorretto” non è, anzi l’azienda è di quelle rigorose, capace di una filiera di grande tracciabilità e di un prodotto sostenibile, di altissima qualità e freschezza, che arriva in tavola a meno di 72 ore dalla pesca in acqua (in Italia è distribuito da Longino*).
Il pesce è stato trasformato in piatti divertentissimi da Marco Bistarelli, chef stellato del Postale*, da qualche anno trasferito da un Castello (Citta di Castello) ad un altro. Ora si trova infatti in quello di Monterone, non lontano dal centro di Perugia. Ecco la foto-sequenza:


Battuta di tonno crudo, yogurt, mango, Campari, verdure croccanti e maionese di gamberi

Tonno, cipolla, fagioli in olio di cottura

Foie gras di anatra marinato e tonno rosso affumicato

Tonno al vitello (una specie di tonno vitellato insomma)

Nighiri di ventresca, maki sushi di tonno e verdure

Spiedini al cubo di tonno, sesamo, aneto, tomago al tamari
La ricognizione dei vini (o meglio di alcuni di essi) è stata già oggetto di un giochino su Intravino*. Qui il limite di scelta era rappresentato dal Km 1000 (sempre di distanza minima dal luogo dell’assaggio). Ecco qua come è andata:

Zilliken – Saarburger Rausch Spatlese Riesling 2010
Un vino delizioso nella sua complessa semplicità, mai banale, scontato o peggio ruffiano. Amalgama alla perfezione delicati toni dolci e maturi ad un preciso, definito e puntuale tratto acido – agrumato che ricorda il lime e la mela verde. Chiude su rinfrescanti cenni di salvia, impreziositi da quelli minerali che ne allietano il lungo percorso.
Bollinger – Champagne Vieille Vignes Françaises 2004
Timido sulle prime, parte quasi evoluto con una cappa predominante di mela al forno e zucchero di canna, non disdegnando qualche incursione di frutto scuro che ci ricorda l’origine varietale della bottiglia. Si libera pian piano, senza soluzione di continuità, fino a trovare un profilo freschissimo, in un valzer di note marine e  “verdi”, a ricordare la buccia di limone non del tutto matura. Una sola domanda: che sarebbe diventato lasciandolo ancora nel bicchiere?
Krug – Champagne Clos d’Ambonnay 1996
Imponente, fittissimo, distinto in bocca da un’acidità devastante che scolpisce pian piano la clamorosa materia. Difficile da giudicare ora. Complicato dire esattamente che sarà di un volto ancora reticente a mostrarsi, di un profilo che deve necessariamente trovare l’amalgama, il giusto mix tra così tante e così imponenti componenti. E’ frutto nero, certo, è timbrica tostata ancora prevalente. E’ bollicina raffinatissima e forza tridimensionale attraversata da percorsi acidi tumultuosi e imprevedibili. Ai posteri l’ardua sentenza.
Christophe Roumier – Ruchottes – Chambertin Grand Cru 2006
Mamma mia che grande vino! Di quelli eccitanti, capaci di rapirti per sempre dopo un minuto. Un rosso ovviamente capace di proseguire con successo il suo percorso di crescita in bottiglia ma già godibilissimo ora. I profumi offrono un ventaglio floreale di impareggiabile finezza, dominati da suggestioni di rosa, impreziositi da puntelli aromatici speziati e minerali che fanno da corredo, mai da comprimari. La bocca è vibrante e setosa, puntellata dalle tipiche sensazioni di lamponi dolci e spezie fini. Infinito.
Domaine Armand Rousseau – Chambertin Grand Cru 2003
Sarà ricordata come una delle grandi annate della zona, al pari dei più celebrati millesimi del passato, tendenzialmente caldi e maturi, capaci di stupire nel tempo e regale emozioni purissime a distanza di molti anni?  Chissà, forse è ancora presto per dirlo anche se i più “anziani” paiono sostanzialmente d’accordo nel dire che andrà così. Certo il vino è magnifico, appagante, scandito dal consueto ritmo e da una timbrica che non ammette discussioni. Rispetto ad annate più fresche, mostra forse un tratto aromatico più scuro, leggermente meno sfumato, e un sorso pieno, gustoso, di fantastica maturità di frutto, incanalato in forme più armoniose e morbide. Non un limite, almeno in una lettura classica del potenziale di invecchiamento della zona, ma certo al momento sceglieremmo altre annate.
René Engel – Echezeaux Grand Cru 2002
Assaggiato qualche anno fa, appena uscito, aveva mostrato un volto incomprensibile, fatto allo stesso tempo di maturità e durezze, linee verticali e percorsi orizzontali incapaci di trovare una sintesi. Ora è il vino giusto al momento giusto, perfettamente capace di raccontare chi è e quanto è grande. Il tempo di sbarazzarsi di un timido accenno riduttivo (quella nota di buccia di pomodoro, peraltro a noi affatto sgradita, in quanto spesso viatico di godimento) e il festival può cominciare. Il naso è in effetti un tripudio di dettagli, di richiami e rimandi che trovano nel gioco di squadra la loro forza assoluta. Chiaro esempio in cui “il tutto vale più della somma delle singole parti”, si diverte a mostrare profumi delicati e coinvolgenti che si rincorrono. I piccoli, delicati e maturi frutti rossi sono contornati da una trama speziata raffinata, leggera, magistralmente accompagnata da accenni terrosi, di humus e sentori coloniali. Molto coerente il palato, setoso ma affatto blando, anzi capace di una silhouette che è pane per i denti chi mal digerisce i percorsi prevedibili, le strade battute e confortanti. Non mancano le durezze, insomma, condite da un finale quasi mediterraneo di radici, erbe officinali ed elicrisio che, anziché penalizzarlo, ne allungano il passo con un delizioso tocco amaricante.
Domaine Emmanuel Rouget – Vosne-Romanée 1er Cru Les Beaumonts 1999
Ci sono bottiglie che non danno risposte ma solo delusioni. Nessun sentore di tappo evidente, niente difetti conclamati, strane evoluzioni o ossidazioni precoci. Solo la chiara constatazione di qualcosa che non va, senza sapere bene il perché e il percome, se sia da imputare al singolo campione (una bottiglia tenuta male, un tappo subdolo?) o peggio all’annata. Fatto sta che le ragionevoli aspettative sul vino sono state del tutto disattese. Ne esce un rosso incerto, banale, con morbidezze e ammaccature assortite unite a tratti amarognoli e incertezze sul profilo tannico. Così com’è, insomma, difficile da giudicare.
Château Mouton Rothschild – Pauillac 1996
I profumi danzano, a tratti anche in maniera scomposta, ma certo non annoiano mai. Partono cupi e si schiariscono nel bicchiere, fino a trovare tratti terrosi e speziati, di resina e acciuga salata (!), che abbracciano il ribes nero in maniera decisa. La bocca è densa ma non grassa, articolata e allo stesso tempo verticale. Si alleggerisce progressivamente, fino a diventare leggiadra nel finale (non cruda però) dove tira fuori una timbrica ematica, ferrosa, con piccante chiosa di pepe bianco.
Château Margaux– Pauillac 2002
Arriva dopo un pari grado (più o meno) di svariati anni più vecchio e forse anche per questo appare di una gioventù disarmante. Un vino grandissimo, esuberante e delizioso sul piano fruttato, con accenni animali e pirici in embrione, appena accennati, supportati da una componente speziata in divenire ma ancora incapace di garantire la necessaria complessità. Troppo presto per apprezzarlo appieno, non c’è ombra di dubbio. La massa, densa, carnosa, di grande impatto fisico, è ancora maledettamente monolitica. Le sfumature arriveranno col tempo, le palpitazioni pure. “Telefona tra vent’anni, io adesso non so cosa dirti…”.
Vega Sicilia – Ribera del Duero Gran Reserva “Unico” 1995
Che era presto per stapparlo lo sapevamo ma, tant’è, l’abbiamo fatto lo stesso. Lui ci accoglie con un clamoroso cesto di frutti rossi e neri, ben dolci e maturi, non senza un timido accenno di confettura, contornati da una cornice balsamica che si farà strada. In bocca è monumentale, di grandissimo impatto materico anche se, ovviamente, non ancora rilassato né risoluto dal punto di vista tannico.
Bodegas López de Heredia – Rioja Viña Tondonia 1994
Al di là di quanto sia buono in assoluto e dei punteggi, un vino che diverte da matti. Ha un profilo tutto in sottrazione e in certi casi pare voler rinunciare anche al frutto. Le note agrumate e di fiori secchi si impossessano ben presto del naso e proseguono in una bocca verticale, pungente, decisamente ossuta. Una vera delizia, per gli amanti del genere…

Il momento della premiazione dei “4 Grembiuli”, speciale riconoscimento che viene assegnato ogni anno alle migliori tavole “private” del paese…

Poteva mancare la composizione artistica del nostro Danile Falchi?

Fratelli barDelli


Sul toppo del Castel di Montarone
Milletrecentoventiquattro vini
Baldelli fe’ confluir a profusione:
con antipasti, dolci e senza primi.

Il tonno, pentagramma di gran suono
ci tiene avvinti, come tra fratelli.
Ci fa goder di ogni piatto buono,
la fervida magia di Bistarelli.

Premiati  i meritevoli grembiuli,
la sera scorre lieta, in compagnia;
il tonno coniugato coi “fasuli”…




compone una morbida malìa.
A rimaner il cor infatti indugia:
non dimenticherò mai più Perugia.

D. F.

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