E’ per bottiglie come queste che sono sempre più felice di poter contare su una cantina che molti definirebbero “sui generis”. Dove c’è posto per i Latour e i Conterno, per un bel po’ di “vini del cuore”, ma anche per tutta una serie di etichette che restano lì come sospese, il più delle volte senza sapere quando “razionalmente” arriverà il loro momento.
L’unico problema, passatemi la parola, è che in certi periodi si restringe parecchio la cerchia delle bocce in rampa di lancio: quella è troppo giovane, quella serve per la verticale, quelle le voglio far sentire ad Antonio e Giuseppe, quelle sono per Alessio, queste altre per quando finalmente passano di qua Nicola e Francesco, quelle per la combriccola, e così via.
Ecco perché, come possono testimoniare i poveri accompagnatori, a volte posso impiegare anche due ore per scegliere una singola bottiglia. Per fortuna spesso mi viene in soccorso lo spazio “didattico”, dedicato a quei vini che più di altri sento il bisogno di seguire con calma, come si fa con un libro di testo. Etichette che magari mi hanno lasciato tiepido in prima battuta, ma che in altre versioni avevo maggiormente apprezzato o che hanno incontrato il gradimento di palati che stimo. O, al contrario, vini che mi hanno molto colpito in positivo all’uscita e che ritengo importante verificare a distanza di tempo, per capire se si era trattato di un abbaglio o un fuoco di paglia. A volte queste occasioni mettono a dura prova l’autostima, rivelando in tutta la loro evidenza le solenni cantonate prese a loro tempo, in altre spunta fuori un sorriso compiaciuto o perlomeno un sospiro di sollievo.
Questo è uno dei casi in cui mi sento un po’ meno asino del solito. Perché l’Ischia Forastera Euposia 2007 di Casa D’Ambra si fa trovare abile e arruolato a cinque anni dalla vendemmia, offrendo molti più spunti di quanto mi sarei aspettato. Ero veramente curioso di capire quale poteva essere l’evoluzione di un vino-vitigno che conosco poco o niente, ma che stiamo incontrando spesso negli ultimi anni tra gli assaggi più convincenti dei bianchi ischitani.
L’ho ritrovato ovviamente diverso da come lo ricordavo, ma il tempo sembra aver lavorato sui tratti somatici più che sul suo carattere. Non è per niente un vino facile da inquadrare, fin dal colore che somma il dorato della maturazione col verde oliva della tonicità. Soprattutto non è facile orientarsi in un naso che ha rinunciato ormai ad ogni illusione primaria o secondaria per presentarsi all’appuntamento nel suo vestito più comodo, come un attore senza trucco e maschera.
Niente prologhi fruttati ma solo una storia terziaria raccontata dalle erbe amare, la bottarga, l’infuso di finocchietto, il pistacchio, gli arbusti marini. Abuso più del solito dei riconoscimenti per chiarire in quale ambito espressivo ci muoviamo, indiscutibilmente mediterraneo ma senza stereotipi aromatico-finto-vermentinosi.
La medesima trama snocciolata da un profilo dichiaratamente orizzontale, tutto affidato ad un’impalcatura salina che rende difficile misurare struttura e tempra acida. L’impressione a centro bocca è quella di un sorso condito con sale grosso, che molla la presa solo nel finale secco e marziale, con ritorni amarognoli ed erbacei quasi da vermouth. Un vino sicuramente all’apice, indubbiamente più “avanti” rispetto a pari annata di altre zone e tipologie della regione, ma non certo appannato dall’attesa in bottiglia.
Soprattutto molto diverso dai principali monovarietali campani: non potrebbe mai essere un greco né una falanghina né una coda di volpe, con la biancolella si tocca per qualche assonanza di terroir e ricorderebbe al limite certi fiano di area calda, ma con qualche anno in più. Ci ho pensato e ripensato e in realtà assomiglia solo a sé stesso; ma se proprio devo ricorrere ad un esempio che possa rendere l’idea, mi rifugerei sicuramente in una polposa Vernaccia di San Gimignano. Così, per giocare e provare a capirsi.
Seppur per gioco, quello che non saprei fare è provare a dare un punteggio, esercizio che tra parentesi mi interessa sempre meno se non finalizzato ad una sintesi all’interno di un sistema editoriale ampio e complesso come una guida. Di sicuro, però, non rileggo come una forzatura o un’allucinazione la scelta di portarlo in finale a suo tempo.
In compenso so molto bene a chi mi piacerebbe farlo assaggiare e a chi no. Non ci proverei nemmeno a sottoporlo ai fan dell’oggettivismo assoluto, quelli che il vino è gerarchia e classifiche in qualche modo fissate a priori, spesso dipendenti da quanti zeri ci sono sul cartellino del prezzo. Non sprecherei la bottiglia con chi mai avrà un dubbio sul fatto che il grande bianco è Borgogna o Mosella, e comunque mai Italia. Né ne condividerei un goccio con chi non ammette altra via se non quella acida-verticale al bianco degno di essere stappato a qualche anno dalla vendemmia. Ma non lo sacrificherei nemmeno con quelli che un vitigno o un territorio “minore” è sottovalutato solo se credono di parlarne loro per primi, magari per auto confermarsi avanguardia rispetto allo pseudo-establishment ottuso e incompetente.
Lo metterei a tavola ben volentieri, invece, con chi non smette di sorprendersi davanti ad una bottiglia non celebrata, non per il mero gusto dell’outsider o dello “strano” ma per una reale, autentica, non esibita sensibilità. Con chi non berrebbe Montrachet di Ramonet tutti i giorni nemmeno se ne avesse possibilità economiche e scorte. Con chi pensa che le mappe del bere interessante sono da aggiornare quotidianamente, non perché una vigna, un vitigno o un manico valgono gli altri, ma perché la scintilla non è sempre questione di blasone. Con chi sa ancora emozionarsi fuori dalla Borgogna, da Bordeaux o da Barolo non perché non hanno mai bevuto i mostri sacri, come fingono di pensare gli oggettivisti, ma perché vivono il vino esattamente come fanno con tutto il resto, con tutto ciò che a che fare con la bellezza e gli stati d’animo. Perché c’è un giorno in cui si ha voglia di uno Chambertin e un altro di piedirosso, proprio come c’è il momento in cui hai bisogno di Ravel e quello che chiama i Led Zeppelin, quello per la camicia più raffinata e quello per la tuta.
Non ho capito molto di più sull’identità e le ambizioni della forastera, ma di sicuro ho capito qualcosa in più su me stesso. Non credo che Andrea D’Ambra avesse in mente questo fra le sue prime centotrenta priorità, ma lo ringrazio comunque… 🙂