Rimuginavo sulla polemica di qualche settimana fa che ha coinvolto Maurizio Crozza, accusato dal “popolo della rete”, come avrebbe detto Studio Aperto, di attingere a piene mani dai blog e social network per le battute più incisive piazzate nelle sue esibizioni a Ballarò e su La 7*.
Non ho potuto fare a meno di pensare a certi tic che si manifestano periodicamente nel nostro piccolo mondo di eno-appassionati-narratori-consumatori.
La contrapposizione sempre più spesso rappresentata tra web e guide-cartacee, per esempio. Ma soprattutto la strisciante questione della “scoperta” nel mondo del vino, col suo portato di punzecchiature e, talvolta, autentici duelli all’arma bianca per stabilire chi ha parlato prima di un territorio, vigneron, annata; chi ha inaugurato una certa tendenza, chi ha aperto la strada a nuovi canali e linguaggi di condivisione. Non per forza un dibattito sterile, eccessi a parte, nella misura in cui segnala che l’originale-inedito è percepito oggi più che mai come un valore aggiunto nella comunicazione enoica. Ma in ogni caso una disputa fuori tempo massimo, giacché pone l’accento su una forma di “proprietà intellettuale” ancora pensata all’interno di un modello informativo linearmente unidirezionale.
Un modello che nei fatti non esiste più, trasmigrato per esondazione nello spazio esperienziale e conoscitivo che per rapidità definiamo rete. Come nel bel mezzo di un paradosso espressivo escheriano, cause ed effetti dell’acquisizione di dati si annodano in modo inestricabile e non siamo più in grado di determinare l’inizio e la fine del flusso né la sua direzione.
E’ il disegno a generare la mano o viceversa? E come fa l’acqua a seguire il canale e allo stesso tempo ad alimentare per caduta il mulino? A pensarci bene è esattamente l’interrogativo irrisolto e irrisolvibile che sperimentiamo quotidianamente nella nostra tripla natura di creatori, ricevitori e implementatori di contenuti. Una struttura cognitiva insita nel DNA umano e rimasta per molti versi mimetizzata fino a quando la dimensione orale era nettamente separata rispetto a tutte le altre forme espressive. In particolare quelle canalizzate in un oggetto fisico, con un suo autore-artefice in qualche modo rintracciabile: un libro, un manoscritto, un quadro, una scultura, un disco, una pellicola, una lampada, e così via.
Senza un editore-redattore, un committente o un brevetto, tanto per capirci, per secoli non c’è stata possibilità e nemmeno interesse a certificare l’origine di idee, intuizioni, aforismi, canzoni, disegni e così via. La pervasività del web, o meglio delle sue applicazioni “software”, fa saltare per aria questo meccanismo, mettendo a disposizione di ogni uomo e donna un pezzo di spazio pubblico e trasformandoli almeno in parte in editori-committenti-certificatori di sé stessi.
Gruppi e categorie così distanti in passato si ritrovano improvvisamente vicini, ricavandone un’illusione di democraticità e uguaglianza che a ben vedere ha peso marginale davanti al suo effetto più sostanziale: il progressivo travaso dell’espressione individuale all’interno di una reale inossidabile intelligenza collettiva.
Fin dall’antichità, la storia della cultura umana racconta una sterminata casistica di dispute su plagi, scopiazzature, veri e propri scippi artistici e scientifici, che non hanno risparmiato nemmeno alcuni miti assoluti della letteratura e delle scienze. Rivendicazioni e recriminazioni che non mancheranno nel terzo millennio, ma che andranno necessariamente ritarate prendendo coscienza di quanto siano ormai labili i confini tra le creazioni inedite della nostra mente e gli infiniti spunti di ispirazione che raccogliamo nell’agorà in cui siamo immersi.
Per certi versi diventerà sempre più difficile risalire con certezza alla sorgente originaria di una determinata dritta-informazione, ma non sarà necessariamente una perdita di senso. Non meno importante dell’autore di primo livello è e sarà sempre di più colui che fa proprio un contenuto altrui, lo interiorizza e lo rilancia: basti pensare al meccanismo di moltiplicazione esponenziale del re-tweet, quello che per molti è la vera forza innovativa dello scambio tramite cinguettii.
Si delinea con crescente chiarezza una nuova forza creatrice, insita nella costruzione di personali palinsesti condivisi, facebook insegna: più si va avanti e più l’idea stessa di talento si modifica, trovando possibilità di manifestarsi nel pensiero-nota scritto in bacheca tanto quanto nella proposta di link “giusti” a notizie, canzoni, video, programmi, eventi, e così via. Anzi, tornando a twitter si può addirittura inferire che qui venga valorizzata più la capacità di traghettare i propri folllowers in medias res, filtrando e selezionando, che la costruzione del contenuto originale in senso stretto.
Niente di più di ciò che farà il cartaceo, o almeno una parte di esso, per sopravvivere: offrire dei livelli di approfondimento non altrimenti reperibili sul web, o comunque non fruibili con i suoi tempi, e allo stesso tempo costruire percorsi significativi e coerenti che si qualifichino come una risposta autorevole e credibile nell’overload informativo della rete. Perché poche informazioni fanno male, ma si va in difficoltà anche quando sono troppe e non indicizzate.
Sono dell’idea che l’enomondo non possa sottrarsi a questa nuova modalità di acquisire e raccontare. Essere riconosciuti, o semplicemente convincersi, di essere stati i primi ad assaggiare un vino, a visitare un’azienda, a spiegare una denominazione, è già un riflesso di retroguardia, tanto più quanto si realizza di essere sempre in qualche modo dipendenti da una o più fonti nel processo di scoperta. Molto più motivante sarà, anche solo sul piano narcisistico, la sfida della citazione ragionata, la costruzione di relazioni diverse tra il già detto e il non ancora esplorato, il contributo incessante ad un virtuoso wikipedia enoico che vada oltre la segnalazione di esistenza, il consiglio e lo schedificio.
A prescindere dal mezzo, sarà sempre e comunque la qualità della riflessione e del linguaggio a fare la differenza insieme all’esperienza, l’autorevolezza, l’onestà intellettuale. Il cartaceo non solo non sarà abbandonato, comprese le tanto vituperate guide, ma diventerà approdo e compagnia naturale per tutti coloro che nella duplice veste di autori e lettori conoscono il piacere e la necessità della sosta, tanto più quando si viaggia spediti.
Mi sembrano illuminanti, in questo senso, le parole con cui Michele Serra espone il suo pensiero proprio in riferimento alla polemica Crozza-Web da cui siamo partiti: “Comici e autori di satira si accusano da sempre, già tra di loro, di rubare le battute. È una polemica stucchevole e soprattutto capziosa, basata assai più sul devastante narcisismo degli artisti (più o meno mancati) che sulla oggettività dell´accusa, perché una buona parte delle battute comiche è “res nullius”, come i pesci del mare. Nascono da un mix inestricabile di tradizione popolare, motti di spirito orecchiati, meccanismi comici riadattati, limati, modificati, rovesciati. Ciò che fa poi la differenza è il loro uso, il contesto nel quale vengono inserite, e soprattutto la maniera di dirle, che è poi il succo dell´arte comica. Il bravo comico (per esempio Crozza) sa rendere comica, usandola nel modo giusto e al momento giusto, anche una battuta media; il cattivo comico rende loffia e inerte anche una buona battuta, per esempio scrivendola su Twitter. La comicità è rischiare la faccia davanti a un riflettore. Il resto è diceria nell´ombra, mormorio degli assenti“.