In relazione a quel che succede nel Paese in cui viviamo, dove il più “giovane” e brillante tra i personaggi delle istituzioni ha 86 anni, la generazione di degustatori cui appartengo è ancora considerata relativamente nuova.
Siamo arrivati a lavorare in questo settore nel momento più sfigato possibile, all’inizio del nuovo millennio, tra i primi vagiti di una crisi praticamente irreversibile e le incipienti contestazioni al sistema della stampa di settore e delle guide, fino al giorno prima considerate una sorta di vangelo. Il solito tempismo che ci distingue, insomma…
Detto questo, arrivare “dopo” riserva innegabilmente qualche piccolo vantaggio, e ci ha in qualche modo salvato da certi vizi attribuiti ai pionieri, ai padri della patria del giornalismo e della formazione enologica italiana. Da furbastri quali siamo, fiutato il nuovo corso, siamo subito saliti sul carro del linguaggio più trendy, quello dei supergiovani in cui si sbeffeggiano i maestri (questa sa un po’ di maoismo), si fanno grasse risate sui vini celebrati dal passato (tutto legno, dolcezze e rotondità) e sui termini usati dai Matusa, considerati non solo logori, obsoleti e stantii ma addirittura ridicoli, inconcepibili da noi critici in blue jeans e maglietta (no, stavolta l’AIS non c’entra niente*…).
Ahahahahahahaha… Hai sentito? Ha detto pipì di gatto… Non ci credo, uhuhuhuhuhuh, quello ha scritto ancora sella di cavallo sudato… Ma dai, ancora co’ stì piccoli frutti rossi e i fiori di giaggiolo? Suvvia…
Proponendoci come il nuovo che avanza (e infatti “avanziamo”), abbiamo ricalcato uno schema facile facile, cercando una strada alternativa alla comunicazione vinicola, e sperando di non cadere in una comunicazione ridicola (scommessa persa, lo so).
Comunque, è arrivato il momento di fare outing e di urlare al mondo come stanno le cose. Quello che diciamo e scriviamo è un conto ma dietro le quinte, tra di noi, siamo centomila volte peggio di chi ci ha preceduto.
Il nostro vocabolario è semplicemente spaventoso per una persona sana di mente e in una decina di anni siamo stati capaci di evocare ogni sensazione odorosa esistente, appartenente a persone, animali, piante, frutti, fiori, cose visibili e invisibili, inventando di sana pianta una cinquantina di specie vegetali, più di cento nuove bestie e almeno un migliaio di insetti che stanno facendo arrovellare il cervello agli entomologi di mezzo mondo.
Prima c’era la banana? E noi tiriamo fuori lo star fruit. Il lychee è già troppo scontato? Eccoti il rambutan… Ma questo è niente in confronto alle evocazioni più strampalate: dal camino spento alla polvere pirica, dalla pallina da tennis alla clorofilla, dal sangue alla ruggine, passando per vaneggiamenti che sono diventati mitici e paradigmatici come il ferro da stiro.
Ed è proprio quest’ultimo, presunto, odore che mi ha fatto riflettere e uscire allo scoperto, perché da un articolo che avevo conservato e che è riemerso dal curioso ordine in cui vivo, quello che sembrava un delirio di quattro invasati alle prese con quantitativi alcolici evidentemente sproporzionati, si è in realtà rivelato una sorta di geniale intuizione.
Il titolo dell’articolo è il seguente: “Il segreto delle patatine? L’odore dell’asse da stiro”.
Non è uno scherzo! Un certo Graham Clayton, e il suo team dell’Università di Leeds, ha indagato sul successo delle patatine fritte elaborando una vera e propria tecnica di degustazione del genere. Indovinate un po’? Analizzando gli aromi presenti, i luminari britannici e i loro complici hanno catalogato diversi aromi tra cui quello di caramella di zucchero, di burro, di cipolla, di cacao, di fiori, di formaggio e, last but non least: di asse da stiro!
Dunque l’asse da stiro esiste e noi tutti che l’abbiamo più volte evocato meritiamo una sacrosanta riabilitazione pubblica. Dove si trova, oltre che nelle patatine fritte? Per noi degustatori vinosi 3.0 appartiene alla categoria delle sostanze minerali, un mix di pietra focaia, calcare e vapore dai caratteri peculiari e non privi di fascino.
Di recente giurerei di averlo sentito in un bicchiere di Sancerre Les Monts Damnés 2008 Pascal Cotat, ma avevo appena stirato i miei jeans dunque il dubbio rimane…