Nemmeno il più autorevole sostenitore del relativismo empirico può convincermi che quella appena passata non sia stata “oggettivamente” una settimana del biiiiiiiiiiip…
Le notizie dal Giappone e dalla Libia (ma sarebbe bastata anche solo un’occhiata attenta alle vicende di casa nostra) mi sono sembrate un chiaro invito a stappare, giacché il giudizio universale non si ammorbidisce se ti fai trovare con un tot di bottiglie in cantina. , Langa ’89 martedì, Bordeaux ’86 mercoledì, i Borgogna ’91 li spostiamo a sabato: mentre riempivo la lavagnetta del menù settimanale, tuttavia, ecco arrivare all’improvviso la peggiore febbre-bronchite dai tempi delle elementari. Che mi costringe a leggerissimi cambiamenti di programma: martedì amoxicillina, mercoledì acido clavulanico, sabato camomilla col miele (millefiori artigianale, però!). Se non sono segni chiari dal cielo questi, ditemi voi…
In casi del genere cosa si fa, a parte aggiornare il campionario delle imprecazioni? Non so voi ma a me capita di andare in cerca di pensieri consolatori, rappresentazioni neuronali della coperta di Linus, mappe di ricordi capaci di riproporsi e confermarsi in forma assai concreta. Piccole grandi certezze materiali, mi verrebbe da dire, se il termine non fosse così rischioso in un ambito tanto mutevole come quello del vino. E’ come se una parte di me stesse scegliendo la bottiglia da offrire al Creatore o al suo emissario apocalittico, non tanto per prendere tempo o patteggiare impliciti sconti di pena ma per dirgli quando siamo ancora carne: fai quello che devi fare, sei tu che decidi, ma quest’ultimo bicchiere lo scelgo io e sono sicuro di non fare brutta figura con un dio di assaggiatore come te (ma gentilmente un po’ di onnipotenza usiamola per evitare tappi, muffette e conservazioni sottoperformanti, grazie).
Ora, già me lo vedo il compagno di bevuta che si mette lì seduto aspettando come minimo un Latour ’61. Anzi no, come onniveggente sa bene che gli sto per servire il Taurasi ’01 di Michele Perillo***. Ed è contento perché lo sa che è buono forte, che per una volta l’eccezione è la bottiglia storta e non quella fortunata, che negli ultimi mesi ha “vinto” tre volte su tre le orizzontali dell’annata con dentro tutti i migliori compagni di denominazione, alla presenza di appassionati e assaggiatori diversi con sensibilità e approcci diversi.
Se proprio ce ne dobbiamo andare, regaliamoci una boccia su cui sembriamo essere tutti d’accordo, dico io. Ce la senti l’edera, il mirtillo, il pepe, la lavanda, la grafite? Mi guarda Lui. Hai fatto il corso AIS, gli chiedo. Lui sorride e scrive con un dito sulla sabbia (sì, ad Avellino non c’è solo argilla e calcare ma anche le famose arenarie del Fenestrelle…) avvolgente, fitto, saporito, vellutato, profondo e decisamente elegante per un aglianico di tale polpa e consistenza tannica. Ok, ne capisci, gli riconosco. Ma soprattutto, gli faccio notare, hai sentito quanto è giovane? Pensa che ne ho altre cinque in cantina… Così magari gli viene voglia di riassaggiarlo a maturità e decide di rimandare la fine del mondo di qualche decennio, non si sa mai…
*** Mentre ci concediamo quest’ultimo bicchiere, in contrada Valle di Castelfranci un uomo sta tornando a casa dopo l’ennesima giornata tra le sue vigne, quelle a spalliera più giovani di Baiano e Iampenne e quelle a tendone entrate decisamente nella terza età che custodiscono il clone di aglianico localmente chiamato “coda di cavallo”. Lo aspettano come sempre la moglie Anna Maria e i figli Nicola e Felice, lo abbracciano e subito gli chiedono: hai sentito che sta succedendo? E vabbuò, stiamo qua, è la sua risposta, vibrata con l’inconfondibile scrollata di spalle. Quante volte gliel’ho vista e sentita, quella risposta, eppure ora mi arriva con un suono diverso, amniotico. Perché in questo oceano ignoto e precario che navighiamo, il fatalismo imperturbabile e orgoglioso di un vero contadino come Michele Perillo è assoluta certezza, attesa consapevole, antidoto all’affanno. Ne strappo via un pezzetto aggiungendolo alle scorte per il viaggio e sento improvvisamente che in fin dei conti non c’è niente ma proprio niente di cui aver paura.