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Dona Flor, due mariti e mille bicchieri

A fine cena mi è tornato in mente un libro di Jorge Amado, letto ormai da un sacco di tempo. E dire che il menu era quanto di più lontano dalla cucina bahiana, ne i piatti assomigliavano a quelli preparati dalla protagonista nella sua scuola di manicaretti.

Non so perché ho ripensato a Dona Flor e i suoi due mariti: alle peripezie notturne del suo primo marito Vadinho, le notti magiche e confuse per le vie della città brasiliana, le fughe, i tradimenti, il gioco d’azzardo e i caldi ritorni; così come al morigerato e perbenista secondo sposo Teodoro, certo più fedele e protettivo ma anche piuttosto noioso, specialmente a letto. Ricordate? Una volta il mercoledì e replica il sabato sera, con bis. Niente deroghe. (Anche se devo dire che più passa il tempo e più rivaluto quella media…).
No, non è per niente di tutto questo. Ho ricordato quel libro per un dettaglio insignificante, almeno per l’economia della storia. Per un paio di paginette che catapultano Dona Flor nel mondo lavorativo del secondo marito, quando si trova ad assistere ad un convegno di farmacisti, di cui Teodoro è uno stimato rappresentante.
Un mondo fino allora sconosciuto e inimmaginabile, il cui livello di approfondimento è per lei spiazzante, per certi versi incredibile. Come del resto lo è quello di ogni mondo, di ogni settore. Lavoro o passione della vita che sia. Chissà che discussioni ci perdiamo, chissà che dovizia di particolari nel descrivere, che so, un francobollo, un’auto d’epoca, un violino, una canna da pesca. Viviamo tutti nello stesso mondo, ma a ben pensarci il mondo di ognuno di noi è un po’ diverso.
Si, il libro mi è tornato in mente per questo. Per un attimo mi sono estraniato dalla conversazione sulle bottiglie che c’erano in tavola, ho allontanato con la mente quelle bocche che vomitavano annate, produttori, etichette, cru. Mi sono immedesimato in un passante, uno che del vino non sa niente (ho fatto uno sforzo minimo), e ho immaginato la sua faccia nello scoprire quell’universo caleidoscopico.
Guardavo i miei commensali e vedevo dei matti da internare accalorarsi per dei particolari insignificanti, parlare di quisquiglie in maniera incomprensibile. Poi sono tornato in mezzo a loro, ho bevuto un altro sorso e sono finito di nuovo nel buco. C’era il bianconiglio, la lepre marzolina  e il cappellaio matto, ma le tazze da tè avevano preso la forma di una serie spaventosa di bicchieri.

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