Appunti per una teoria isostatica del salmì

Il salmì, recita il vocabolario, è un intingolo preparato con pezzi di selvaggina – almeno all’origine – macerati in vino e poi cotti in un sugo aromatico.

Ma, prima di addentrarmi in questioni di alta e raffinatissima accademia culinaria, un’occhiata all’etimologia. Palese è la radice latina – sal; il termine però ci arriva dal francese ed è attestato in Italia dal 1741: salmis è la voce abbreviata di salmigondis, dall’italiano salami conditi.
Questo particolare metodo di cottura, indubbiamente per palati forti dato il suo sapore intenso e deciso, nasce per la cacciagione come sistema per togliere quel suo gusto così marcato, cui fa da pendant olfattivo un certo cattivo odore.
Passo dopo passo si è poi esteso dalla caggiagione alle carni rosse, per approdare a quelle bianche: pollo, faraona e coniglio, con incursioni anche tra i piccioni comunali, così tenaci da postulare un’adeguata cottura. Echi di ricette nubiane, dove peraltro abbonda nella marinatura il cumino, mi convincono a sperimentare sulla capra (garganica, non montenegrina, come ha tenuto a puntualizzare il mio spacciatore d’occasione) il salmì.
Il risultato è inenarrabile, sempre che non mi faccia velo la mia smodata passione per tutte le carni ovine e mi suggerisce una riflessione molto intrigante.

Credo si possa sostenere la funzione isostatica (vulgo:equilibratrice) del salmì. Ovvero: questa preparazione consente alle carni più gentili una degna pregnanza olfatto-gustativa mentre sul fronte opposto ingentilisce parecchie varietà di carne. Su un piano inetrmedio il cavallo e di passaggio, a volte, il pesce di lago. Così mi è capitato di far finire in salmì (in edizione light) un’incolpevole tinca con esiti soddisfacenti.
Di qui, ovvero dopo aver fornito le basi epistemiologiche della teoria isostatica del salmì, forti di una recente esperienza, un’audace proposta, che verificheremo appena possibile. Abbiamo avuto modo di mangiare uno spezzatino di pecora alla mentuccia, dove però un’inadeguata marinatura non era stata in grado di affrancarlo dal suo profumo (infatti puzzava). Ripensando a quella disavventura, mentre gustavo l’eccellente carne di capra, ho immediatamente pensato che il salmì, per la pecora, costituirebbe “la morte sua”.
N’est-ce pas?

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