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Adarmando Tabarrini. Ovvero "del trebbiano spoletino"

Non so se avete presente la roveja. E’ una specie di piccolo pisello selvatico, tipico delle montagne della Valnerina, tra Umbria e Marche. Nasce spontaneamente nelle zone di coltivazione della lenticchia, di cui è un infestante, ed ha contribuito per anni a sfamare i pastori e i contadini della zona, in tempi di carestia.

Gli stessi poveracci che, passata la paura, non ne hanno giustamente voluto più sapere di quel ripiego, passando a miglior cibo, fino a quasi farla sparire. Quando stavano riuscendo nell’impresa di cancellarla dalla faccia della terra e le bottiglie di Champagne erano già in frigo, ci ha pensato Slow Food a farne un presidio, salvando l’infausto legume e gettando quei disgraziati nello sconforto!
Ditemi se molte delle storie recenti di recupero e valorizzazione dei vitigni autoctoni non assomigliano a quella della roveja. Accanto a varietà degne di nota, di un certo pregio ed interesse, ce ne sono una miriade il cui recupero appare senza senso, addirittura dannoso. Una sorta di accanimento terapeutico di cui avremmo fatto volentieri a meno.
No all’ideologia dell’autoctono e del tradizionale a tutti i costi, ma giudizio ponderato caso per caso. Se ancora mi seguite, ecco una varietà del passato che sta dimostrando invece il suo valore, anzi, la sua grandezza: il trebbiano spoletino.
Il nome è sfigato, lo so, ma quest’uva bianca mi ha stregato. Me ne parlò anni fa un vecchio professore di agraria dell’Università di Perugia, a cui ovviamente ho risposto con la saccenza e l’ignoranza di chi, dopo due bicchieri di merlot, crede di aver capito tutto.
Poi ne ho assaggiata una versione incredibile della cantina Bea di Montefalco, direttamente dalla vasca. Che fine abbia fatto quel vino, non l’ho mai saputo. Allora sono andato a cercare qualcosa di vecchio, una boccia della metà degli anni ’90 di un’azienda che non esiste più (sorprendente) e due bottiglie di un contadino di Trevi, tappate alla meno peggio e datate 1979. Il risultato è stato sconvolgente: riflessi verdi ancora in evidenza, profumi integri, acidità sostenuta e buona materia.
Ma la vera folgorazione è arrivata col trebbiano spoletino di Giampaolo Tabarrini (ottimo il 2006, straordinario il 2007, non vedo l’ora di vedere coma va a finire il 2008), giovane produttore mezzo matto di Turrita di Montefalco. Viti a piede franco, allevate secondo metodi arcaici, vendemmia non prima di metà ottobre, e un vino che da subito mi ha fatto gridare al miracolo.
Un bianco umbro di raffinata eleganza, pur nei suoi tratti procaci, di grande e puntuale acidità, capace di sensazioni minerali rarissime per queste latitudini.
Aromaticamente è un vino eccezionale: unisce sensazioni tropicali (il descrittore principale è tra il frutto della passione) a note freschissime, agrumate (lime), fino a sfumature di pietra focaia. La bocca è dello stesso segno, capace di unire un’appagante dolcezza di frutto ad una rara tensione, proseguendo su un saporito nerbo acido e una sontuosa profondità.
Un grande bianco che, alla prova dei fatti,  dimostra pure una splendida propensione al’invecchiamento. A che somiglia? Mah, forse a niente in particolare ma se costretto al gioco dico che è una via di mezzo tra un fiano piuttosto ricco e un riesling, nel segno di una certa aromaticità insomma.
Siamo ancora agli inizi di un lungo lavoro, ma se il buon giorno si vede dal mattino può addirittura farci dimenticare il sapore della roveja…

Alessandra Ruggi, il sottoscritto e uno sbalordito Paolo De Cristofaro davanti al trebbiano spoletino 1979 (fatto per la festa di Trevi 1980)

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